La propria terra come pedagogia.Per una didattica della cultura locale
Giulia Caminada
Benché i problemi relativi all’educazione tocchino direttamente ogni persona, nelle istituzioni scolastiche è sempre stata dominante un tipo di didattica intellettualistica ( che matematicamente ignora le esigenze educative più concrete di bambini e adolescenti) o una maniera “sentimentale” di intendere e di realizzare l’insegnamento scolastico ( che inevitabilmente porta a un insegnamento “artigianale” – nel senso più limitativo del termine -, a una sorta di bricolage scolastico ). Questo avviene oggi, però, sullo sfondo di grandi mutamenti culturali e sociali che inevitabilmente sono strettamente connessi all’agire educativo. L’esperienza cognitiva ed affettiva di individui che abitano un pianeta diventato società globale è sempre più dilatata dai ritmi accelerati del cambiamento in una misura che non ha paragone con nessuna cultura precedente dell’umanità. In passato, individui e gruppo fondavano la continuità della propria esistenza su punti di riferimento stabili che oggi sono venuti meno e la ricerca di dimora dell’identità è diventata vicenda comune. Il mutamento incalzante degli eventi e delle relazioni apre all’individuo la complessità e l’incertezza, costringendolo a mutare forma restando se stesso. La vita quotidiana porta i segni di questa tensione irrisolta. Le potenzialità e le incertezze di un mondo incommensurabilmente grande bussano pressantemente alle porte dell’essere che si trova sempre più bombardato da un villaggio globale che continuamente sembra minare i fondamenti dell’identità individuale e sociale[1].
In questo contesto si pone l’urgenza di considerare i problemi relativi all’educazione in tutto il loro portato di crescita per l’individuo, rifondando una pedagogia che sappia farsi carico del suo più autentico sostrato culturale e educativo, senza per questo dover necessariamente riproporre vecchi valori ideali o nuovi luoghi comuni.
La determinazione del modo di essere dell’uomo attraverso la sua esperienza di percezione e di rappresentazione dello spazio nel quale vive (e le pratiche volte a produrla) dovrebbero essere una risorsa in campo educativo[2], mentre spesso rimangono qualcosa su cui si preferisce tacere e non operare, occupandosi solamente di “istruzione” o di “formazione”, talvolta nel senso più mercenario del termine. Ripensare il processo di formazione dell’individuo significa allora ripensare la struttura dell’educazione come un dispositivo complesso, di cui vita e avventura non possono non costituire i principali punti di riferimento. In quest’ottica l’educare non potrà più essere considerato separatamente dall’istruire e la pedagogia si riapproprierà più pienamente di se stessa e delle sue potenzialità culturali, oltre che tecniche e scientifiche[3].
Se poi guardiamo alla scuola, in questi ultimi anni, il quadro è caratterizzato da incertezze. Si è cercato di affidare alla scuola responsabilità e compiti sempre nuovi e nello stesso tempo si è mostrato sfiducia nelle sue capacità di rispondere ai bisogni e alle attese… molti sono i problemi che abbiamo visto scorrere e che si vorrebbe che la scuola abbia affrontato in chiave formativa: l’educazione stradale, il risparmio energetico, la fame nel mondo, la tossicodipendenza, la pace… E al fondo lo stesso bisogno. Quello di operare attraverso la scuola una trasmissione di valori. La scuola non sostituisce la famiglia e la società nell’educazione di un individuo, ma può sicuramente contribuire nella ricerca di senso, di significato intrapresa – più o meno consapevolmente – da ogni individuo nel suo percorso di crescita.
Anzi, la Scuola del giorno d’oggi centra – forse – maggiormente la sua funzione proprio quando risponde al bisogno di sviluppare con armonia le caratteristiche degli allievi, concentrandosi intorno a ciò che costituisce il valore. La famiglia, la scuola e la società nel suo complesso contribuiscono all’educazione dei giovani e allo sviluppo dei valori estetici e morali, ma non è azzardato ritenere che la finalità ultima dell’educazione dovrebbe essere rintracciata nella felicità e nel valore che genera felicità. Se la felicità è il fine della vita e dell’educazione, il valore potrebbe sostituire la verità come fondamento della filosofia dell’educazione[4]. Quale valore, però? Il valore viene dalla comunità nella quale l’individuo è inserito e dalla quale ciascun individuo è plasmato. Non occorre scomodare pedagogisti e accreditati studiosi per affermare che sin dalla più tenera età gli scenari di vita del bambino – fortemente intrisi di affettività – sono la casa, con le sue estensioni di cortile, giardino, e la scuola. Per tutto l’arco evolutivo la casa rappresenta il campo-base da cui si parte e a cui si ritorna in una dialettica continua tra dentro e fuori, tra protezione e rischio, tra certezze e ignoto: luogo chiuso e sicuro, protetto, riservato ed esclusivo della famiglia, garanzia di continuità e immutabilità in cui si perpetuano ruoli ben noti e in cui si parla un “codice ristretto” funzionale, nella grande generalità dei casi, a conservare più che a promuovere e stimolare. Nell’infanzia essa ha un “fuori” molto contiguo, che è in realtà un suo prolungamento e una sua estensione: il cortile, il giardino, la strada vicina. Qui prevalentemente si collocano i giochi, gli amici, la libertà, il movimento, l’avventura. Fuori di casa c’è spazio per il piacere, per l’iniziativa personale, per le piccole trasgressioni. Tra le pareti di casa si collocano le intimità affettive, gli apprendimenti di norme e di valori, i rituali; nello spazio esterno le prime esperienze di individuazione, di esplorazione del mondo, di sperimentazione di capacità e di autonomie. L’altro polo istituzionale dell’esperienza infantile è l’ambiente scolastico, un prolungamento protetto della casa, entrambi giocati a partire da una relazionalità fondativa e necessaria al processo di maturazione dell’individuo, alla sua sperimentazione e al suo riconoscimento sociale e culturale. La “prima scuola”, luogo sempre più naturale dell’esperienza infantile, condivide con la casa, in stretto parallelismo, ritmi, abitudini, lenta processualità, presenza di figure contenitive e normative al tempo stesso. Non nettamente differenziata dall’insieme dell’esperienza infantile la scuola si configura allora come un luogo piacevole di gioco e di scoperta, occasione di attività e di promozione di capacità, sede di apprensione di compiti sociali e culturali. Inoltre, in riferimento alle più accreditate teorie evolutive degli ultimi decenni, la capacità di prendere coscienza e di darsi una rappresentazione dei rapporti spaziali è presente nel bambino nel periodo in cui si hanno le prime manifestazioni di un’intelligenza rappresentativa, naturalmente se ci riferiamo a rapporti spaziali di natura molto elementare. La rappresentazione mentale dell’ambiente è insieme un’astrazione e una sintesi; frutto dell’esperienza accumulata da ogni individuo, tale esperienza è in funzione dei suoi apprendimenti, delle sue attività e del modo in cui percorre abitualmente il “paese” o la “città” nei quali il bambino vive[5].
Alla luce della ricerca degli ultimi vent’anni, alcuni studiosi hanno, inoltre, posto attenzione alla natura culturale della conoscenza e del processo di acquisizione della conoscenza: alla fine degli anni Settanta fa la sua comparsa la nozione di un Sé narratore, “un Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia”[6]. La rivoluzione cognitivista, con la sua progressiva frantumazione del campo della psicologia in più discipline specialistiche, sembra aver allontanato la psicologia dal suo obiettivo, che è lo studio di come l’uomo interpreta se stesso, gli altri, il mondo. Tale studio non può essere rinchiuso nei limiti della ricerca a ogni costo di una spiegazione in termini di causa ed effetto – il pensiero scientifico tradizionale -, impedendoci magari di comprendere i significati dell’esperienza umana nella sua continuità. J. Bruner propone una “psicologia culturale”, di cui è elemento essenziale la circolarità del pensiero narrativo, contrapposto al pensiero “scientifico”, sostenendo che oggi lo psicologo deve volgersi alla ricerca non delle “cause” ma dei “significati” dei pensieri, dei sentimenti e dei comportamenti dell’individuo, intesi come principi strutturali dei processi e delle vicissitudini umane. Pertanto, con il termine “psicologia culturale”, Bruner definisce quella condizione umana, quell’insieme di nozioni culturalmente determinate – negoziate e condivise -, in base alle quali gli individui organizzano la propria concezione di se stessi, degli altri, del mondo in cui vivono. La psicologia di una cultura – matrice non solo dell’itinerario che struttura la vita individuale, ma anche della coesione societaria – non è costituita da enunciati logici o proposizionali quanto dalla prassi della narratività e dall’esercizio ermeneutico che si compie in ogni rielaborazione simbolica degli eventi. La psicologia culturale, fondamento essenziale sia del significato individuale, sia della coesione culturale, consiste, pertanto, in un esercizio di narrativa e di narrazione. Bruner ipotizza, inoltre, un’attitudine umana al significato, a partecipare alla cultura e a utilizzare le forme narrative. Secondo la prospettiva messa in luce da Bruner, fra i tanti aspetti che contribuiscono ad una migliore comprensione dell’uomo, non si potrà non tener conto del mondo simbolico che costituisce la cultura umana; infatti,
Il progetto di una psicologia culturale non è inteso a negare il valore della biologia o dell’economia, ma a dimostrare come la mente umana, e la stessa vita umana, sono riflessi della cultura e della storia tanto quanto un riflesso delle risorse fisiche e della biologia[7].
E le nuove posizioni costruttiviste di un Sé narrativo mettono in luce, e legittimano allora, l’importanza – accanto ai riconosciuti percorsi di apprendimento quantitativi – di percorsi di apprendimento e di conoscenza della realtà qualitativi, legati ai paradigmi costruttivisti nel processo del conoscere.
La psicologa T. Giani Gallino – ordinaria di psicologia all’Università di Torino – ha recentemente messo in luce, nel suo ultimo libro, anche quanto i piccoli copino il passato degli adulti[8]. A quattro o cinque anni il bambino è privo di un vissuto “interessante” e per compensare questa carenza tende ad appropriarsi dei ricordi narrati da adulti che reputa positivi. I piccoli si identificano nell’adulto non solo imitandolo (come nel gioco in cui si fa finta di fare i “mestieri” di casa) ma anche con la narrazione dei suoi ricordi che sono raccontati come se li avessero vissuti in prima persona.
Memoria e identità sono speculari e il loro ruolo è decisivo nell’autostima con cui un individuo e una comunità di destino sorreggono e consolidano il loro avanzamento. La sottovalutazione dei fattori culturali dello sviluppo porta, sia l’individuo sia la comunità, in molte situazioni concrete, a mortificare le potenzialità di sviluppo dell’individuo quanto della comunità locale. Questo tocca non soltanto l’autostima, ma anche l’apprezzamento sociale riguardo a comportamenti positivi. Ed è mia convinzione, confortata dalle più attente analisi della realtà contemporanea da parte di chi non si lascia guidare da stereotipi, che studiando i bisogni e gli orientamenti di valore espressi nelle culture locali si possono meglio comprendere le tendenze del mondo. E dal valore discenderà per l’individuo uno sviluppo calibrato sulle concrete risorse dell’individuo in termini di conoscenza, vocazione, disponibilità al confronto, competenze acquisite e orientamento sui valori essenziali di riferimento. Ogni cura dovrebbe essere approntata per educare e sostenere a forme di autogoverno della persona e delle comunità di appartenenza. Scriveva K. Polanyi:
Gli uomini hanno un’anima da lasciare è solo un altro modo per asserire che hanno un valore infinito come individui. Dire che essi sono uguali è solo riaffermare che hanno un’anima. La dottrina della fratellanza implica che la persona non esiste al di fuori della comunità. La realtà della comunità è la relazione di persone[9].
La società con le sue forme spontanee di associazionismo e di volontariato, e con istituzioni socio-politiche coerenti, vive il suo miglior stato. Mentre sono protese verso aggregazioni sempre più ampie (locali, provinciali, regionali, nazionali, continentali, planetarie) per realizzare il principio della sussidiarietà che è naturale riferimento della distribuzione dei poteri, le comunità degli uomini ribadiscono il loro essere insieme distinte e solidali. Un orientamento continuamente insidiato da tutti gli ideologismi che si sono succeduti nella storia, tenacemente decisi a non riconoscere una verità naturale, già appuntata molto bene da J. G. Herder due secoli fa:
I popoli si riducono infine a famiglie, le famiglie a capostipiti: il fiume della storia si restringe fino a giungere alla sua fonte e l’intera terra abitata si trasforma in una scuola della nostra famiglia, si con molte suddivisioni, classi e sezioni, ma sempre secondo un sol tipo di lezioni, ereditato attraverso tutte le stirpi dal primo padre, sia pur con molte aggiunte e mutamenti[10].
Il ruolo dell’educazione può diventare, allora, essenziale nel far adottare il punto di vista più favorevole alla piena emancipazione umana. Dal buon governo della famiglia al buon governo degli stati corre un filo valoriale che si appoggia a successivi sostegni di democrazia locale nell’ambito di ciascuna comunità con le sue tradizioni, la sua storia, i suoi valori, dimenticando i quali si lascia spazio al degrado individuale e collettivo.
T. Makiguchi sostiene che la mancanza di valori reali nella pedagogia contemporanea è triste testimonianza dell’assenza di interesse della comunità insegnante nei confronti del valore come elemento strutturante. Si riferisce al suo tempo, il Giappone dagli anni ’20 agli anni ‘40 del Novecento, ma la modernità del suo pensiero può costituire elemento di riflessione anche ai nostri giorni. È dunque importante riesaminare le nostre idee sull’educazione e modificarle in base a principi ispirati al valore. E non è fuori luogo, neppure oggi, l’istanza di dover istituire una nuova pedagogia che si basi sull’esperienza concreta e su obiettivi di valore attraverso un lavoro fondato sull’economia dei mezzi. Infatti,
Siamo di fronte a una sfida senza precedenti: dobbiamo creare una scienza dell’educazione completa ed efficace, una pedagogia definita attraverso le difficoltà di un’ampia sperimentazione, finalizzata al raggiungimento di valori esistenziali. (…) … lo studio non va considerato come preparazione alla vita: deve svolgersi proprio mentre si vive, così come la vita si sviluppa nel corso dell’atto di studiare. Studio e vita, più che correre su binari paralleli, si intrecciano e si danno reciproche informazioni, lungo l’intera esistenza. In questo senso le riforme proposte si focalizzano non sul migliore bilancio dei programmi scolastici, ma sull’obiettivo di infondere gioia e apprezzamento verso il lavoro.[11]
Makiguchi sosteneva che nel sistema educativo in vigore al suo tempo – creato sul modello dei paesi industrializzati e volto a formare persone adatte a utilizzare le macchine e a svolgere quelle responsabilità dettate dalle necessità del consumismo – agli studenti bisognava trasmettere scoperte e informazioni e gli educatori svolgevano funzione di intermediari fra i ragazzi e l’informazione da apprendere. Nel modello da lui presentato è lo studente e non la scuola a essere al centro del processo di apprendimento e il curriculum di base deve partire dallo studio della natura dell’individuo e del tessuto sociale ( locale, nazionale, regionale e globale ) in cui vivono gli studenti. Il ruolo degli educatori è di guidare, incoraggiare e stimolare gli studenti a trovare scopi e motivazioni, aiutandoli a rimuovere gli ostacoli che potrebbero impedire il processo di apprendimento.
Ma il valore non viene da solo. Deve coniugarsi con l’impegno per chiunque si occupi di scuola, nell’insegnamento e nella ricerca, all’adeguamento della cultura collegata alla formazione e alla discriminazione di possibili significati rintracciabili in un rinnovato peso dei contenuti legati alla trasmissione della conoscenza, specializzando al massimo la cultura che si vuole trasmettere. Infatti, nell’attuale società la scuola risulta perdente se si mette a rincorrere in modo concorrenziale, sia quanto a messaggi sia a tecniche, il mondo della comunicazione di massa. Non sorprende allora, che nel vuoto d’identità della scuola, una prospettiva potrebbe aprirsi nell’atto di coniugare i valori (che giungono all’universale ma che sono radicati nel locale, nel particolare) con una nuova scelta di contenuti da trasmettere, rintracciabili in una logica “nuova” di dialogo e di relazione fra la scuola e il territorio che si esprime anche attraverso la sua scuola.
Da qui a considerare la propria terra come pedagogia, il passo è breve. La comunità riconosce ambiti di radicamento e di espressione non riconducibili al potere e si fonda sul rispetto delle differenze, che è la negazione del criterio di uniformità su cui hanno retto molti totalitarismi. La Scuola e l’educazione, sempre altalenanti tra conservazione e innovazione, astrattezza e adeguamento alle esigenze imposte dall’economia di mercato, non hanno mai avuto vita facile né continuità. Oggi, i consumi culturali e per l’istruzione si orientano in prevalenza verso l’acquisizione di competenze e conoscenze informatiche e comunicative, che rappresentano nuovi saperi. Sono contenuti che determinano la possibilità di integrarsi e di partecipare alle dinamiche sociali e che, conseguentemente, preservano da nuove ( ma forse più pericolose ) forme di emarginazione; tuttavia, i nuovi saperi, se rimangono esclusivamente tecnici, non ci mettono al riparo dalla perdita di quell’identità culturale che ha intessuto le abitudini, i punti di riferimento, i valori tipici di territori omogenei, tanto da porsi quale elemento di senso per i loro abitanti. L’immensamente piccolo e l’immensamente grande potrebbero coesistere, soprattutto oggi, in un mondo dove tali problematiche coinvolgono, eticamente, tutta la dimensione umana, attraversando anche le articolazioni della conoscenza, in particolare investendo la Scuola e i luoghi di trasmissione del sapere. Nella sua apparente semplicità, considerare il territorio come pedagogia potrebbe diventare un modo equilibrato di aprirsi e rapportarsi con la globalità del sapere attraverso la conoscenza della particolare struttura della propria comunità e della consistenza delle proprie radici[12]. Vuol dire dare un senso alla parola identità, sia della scuola sia dell’individuo. E forse riusciremo a capire – o a ricordare – che l’identità – come la libertà – non esiste nell’accezione più ampia del termine, ma soltanto come qualcosa di estremamente concreto, declinata nella sua applicazione alla realtà. E l’identità è sempre e soltanto identità culturale. E la cultura, per un antropologo attento qual è C. Geertz, è un insieme ordinato di simboli, di cui l’etnicità è sintesi, a cui noi ci ancoriamo
Animali incompleti o non finiti, che si completano e si rifiniscano attraverso la cultura, e non attraverso una cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari[13].
Parole che sembrano voler dire che gli uomini non modificati dalle usanze di luoghi particolari non esistono. A. D. Smith aggiunge:
Tutti gli strumentalisti di qualsiasi tendenza trascurano l’influenza potente del mito e della storia sullo spirito e sull’agire dell’uomo[14].
E le comunità locali – caratterizzate dalla condivisione di cultura, al di sopra delle suddivisioni sociali, sessuali, generazionali – sono il concreto scenario dove la persona interiorizza i principi, i comportamenti e gli stili di vita propri al suo gruppo e soltanto un saldo radicamento in questa realtà darà modo all’individuo di agire con pienezza di senso nelle relazioni collettive. E dal locale al globale si stabilirà una dialettica che non ammetterà l’esclusione dell’uno o dell’altro ambito nel determinare, nel concreto, la storia degli uomini. L’ossessione dell’uniformità porta allo sradicamento e, di conseguenza, a comportamenti che non favoriscono quell’unione di comunità che sarebbe possibile costruire nel rispetto delle specificità e dei vantaggi comuni.
La vocazione naturale delle culture è alla socialità, al confronto, alla ricerca d’incontro, di relazione pubblica. Se non sono distorte nel rapporto con gli altri, da eventi che ne umiliano l’agire consapevole, il loro habitat naturale è il cortile di casa, il mercato e la piazza principale della città, sottolinea Geertz delineando gli spazi comunitari in riferimento a ciascuna dimensione delle relazioni umane, dall’ambito famigliare ai sistemi più estesi.
La cura per ciò che costituisce lo specifico culturale di una comunità garantisce uno sviluppo endogeno e autocentrato per un ambito territoriale definito nei suoi contorni socio-culturali, per un’area che potremmo definire omogenea. E’ questa misura di saggezza che ripropone le ragioni di solidarietà fra gli uomini, del dialogo fra le culture, ciascuna delle quali sarà maggiormente in grado di apportare contributi proficui quanto più è valorizzata nella sua specificità. L’unione di intenti, a ogni livello, è tanto più efficace negli esiti quanto più i partecipanti allo sforzo collettivo sono indotti all’autostima, accresciuta in questa specularità di diversi e solidali. Per questa via si giungerà anche all’educazione all’interculturalità, cioè l’insieme di processi che conducono dal riconoscimento del dato di fatto della multiculturalità al valore del pluralismo culturale[15].
Da qui, una didattica della cultura locale. Non quale fine dell’educazione-istruzione dell’individuo ma quale mezzo e luogo attraverso cui l’individuo possa ritrovarsi nei suoi bisogni di dare senso e significato alla realtà. Mentre la ricerca educativa va occupandosi prevalentemente di didattica e la cultura pedagogica continua a confrontarsi con il pensiero filosofico, il grande tema della formazione umana finisce con l’essere smembrato in una pluralità di approcci estrinseci e settoriali. Tanto che lo si affronti sul piano dei suoi percorsi istituzionali e dei suoi meccanismi psicologici, quanto che lo si affronti in termini progettuali a partire dal mondo scolastico, ciò che resta in secondo piano è la concretezza esistenziale dei fenomeni educativi. All’interno dei processi formativi scolastici ed extrascolastici, il “territorio”, le diverse realtà locali, potrebbe rappresentare un elemento imprescindibile nell’attuazione di didattiche volte a superare la persistenza del considerare l’età evolutiva solo come una lunga fase di vita “normale”, una necessaria e “scontata” preparazione alla vita, più simile a un curriculum obbligatorio di crescita che a un’avventura personale. Nello specifico della scuola di base, l’ambiente-territorio – se correttamente inteso – potrebbe configurarsi quale continuum vitale cui ancorare esperienze e conoscenze che la scuola “veicola”[16].
Lo scopo dell’educazione deve emergere dalla vita e dai bisogni quotidiani delle persone, che sono persone particolari, legate a un determinato ambiente umano e culturale, a determinati valori. E la cultura è sempre cultura molto particolare legata ai contesti di crescita di un individuo e all’identità dei singoli territori. Parlare di identità dell’uomo diventa, allora, parlare di identità culturale e la riflessione educativa non può rimanere estranea dall’accogliere il portato educativo di una didattica della cultura locale all’interno dei percorsi formativi dell’individuo. Perché questo vuole dire accogliere ed interpretare la complessità dell’esperienza vitale dei bambini/ragazzi e tenerne conto nella progettualità educativa in modo da svolgere una funzione di filtro, arricchimento e valorizzazione nei riguardi delle esperienze extrascolastiche, allo scopo di sostenere il sorgere e lo sviluppo delle capacità di critica, di autonomia del comportamento e di difesa anche dai condizionamenti; promuovendo un’impostazione curricolare che aprendo gli spazi e i tempi dell’agire educativo sarà sempre più volta all’impegnativo ma sempre gratificante tentativo di collegare la sezione, la classe, i gruppi alle grandi risorse della comunità.
Questo comporta una negoziazione e ridefinizione della pratica didattica nei contesti scolastici e dell’idea di sviluppo cognitivo, ma aprirà nuovi ponti tra teoria e prassi, insegnanti e ricercatori, scuola e comunità e, forse più importante, tra le area di forza del bambino e le abilità richieste dalla scuola. Accogliere l’ambiente, il territorio, come matrice culturale e educativa non è un insieme di test o di unità curricolari; è, invece, una cornice, un modo di pensare la crescita e i punti di forza dei bambini a scuola, sin dalla più tenera età[17].
Lo stesso principio metodologico-didattico di “personalizzazione”, su cui si centra la nuova riforma della scuola, è indice di una diversa visione di umanità e dei suoi bisogni educativi, di un’ispirazione metodologico-didattica di fondo che non può essere fraintesa o diventare surrogato delle comprensioni individuali di ciascun insegnante. È un principio ispiratore e un metro d’azione che accoglie la ricchezza delle diversità fra gli alunni cui l’offerta formativa è rivolta, comportando la possibilità di esiti formativi soggettivamente diversi anche perché, il più delle volte, il bilancio istruzione-educazione di un gruppo-classe è quasi sempre una coperta troppo piccola: tirare da una parte ha più volte, inevitabilmente, voluto dire lasciare scoperta l’altra parte, confermando il debole nella sua marginalità, abbandonando il supposto “ricco” ad una ricchezza che diventa casuale e dispersiva. Contribuendo, inoltre, a differenziarsi da valutazioni standardizzate che penalizzano un’ampia fascia di bambini “portatori di intelligenze tradizionalmente non accreditate nei curricoli scolastici, magari solo in quanto appartenenti a minoranze etniche, culturali o sociali”[18]. Con la certezza che nell’ambito di ciascun singolo segmento della scuola di base una didattica della cultura locale comunque si fa, sparpagliata fra le molteplici discipline, con approcci disciplinari e interdisciplinari legati il più delle volte agli interessi e alla formazione del singolo docente, ma non come punto di forza, come idea forte che può caratterizzare il progetto educativo di una scuola, determinante magari anche il piano dell’offerta formativa di un istituto comprensivo o di un circolo didattico. A ben guardare la relazione tra scuola e territorio, i punti di contatto, sono sempre stati molti, ma è spesso mancata l’ufficialità della relazione, ossia il riconoscimento della dignità disciplinare allo studio del territorio[19].
Del resto non è sempre facile introdurre “l’ambiente” in una scuola tendente a privilegiare una sola logica, un solo criterio quasi assoluto di interpretazione dei fatti. Significa portare nella scuola il concetto di “verità possibile” e muoversi costruendo certezze provvisorie e limitate. Si tratta di entrare nella logica della metodologia della ricerca per scoprire l’esistente cercando di capire le origini del suo sviluppo. E l’ambiente, poi, non è unicamente il luogo in cui gli allievi abitano e la scuola ha sede. Esso è innanzi tutto ambiente culturale e umano, fatto di linguaggi, valori, tradizioni, norme, realizzazioni tecniche. Ma proprio l’ambiente pone di riflesso l’uomo nei suoi rapporti con gli altri e con l’ambiente stesso, contribuendo a dare unitarietà, perché crea un sistema interpretativo, cioè una visione del mondo fondata sui valori. Per la scuola, per gli insegnanti, per le famiglie e per gli alunni si aprono grandi possibilità nella ricerca di senso e di significato e nella scuola del futuro, più o meno imminente, lo studio del territorio rimane un punto centrale, con ulteriore possibilità di ampliamento legata alla quota di curricolo riservata alle scuole. Non è azzardato ritenere che proprio al territorio saranno legate queste iniziative locali ma anche che proprio dal territorio esse potranno scaturire e con esso essere realizzate. Le premesse concrete ci sono, basta vedere quanti progetti nell’ambito del Piano dell’Offerta Formativa di ogni scuola, sono legati al territorio.
Quello fra Scuola e territorio è senz’altro un dialogo in costruzione. L’autonomia, favorendo il decentramento organizzativo, decisionale e didattico delle scuole, ha posto fine al dirigismo statale che le omologava e promuove un più stretto coordinamento tra scuola e territorio. La fisionomia degli Istituti rinvia alla pienezza delle relazioni e dei contesti vitali entro i quali prende forma e cresce. L’identità e le finalità istituzionali della scuola si declinano e si realizzano assumendosi e interagendosi con i bisogni, la storia, i progetti e le speranze delle comunità locali. Lo spazio entro il quale la scuola dinamicamente s’inserisce non è più quindi uno spazio vuoto e indifferente, il passivo ricettacolo di politiche educative lontane ed astratte, ma una pluralità di luoghi concreti, plasmati e tessuti dalle generazioni che li hanno abitati. In una prospettiva che preveda una sostanziale autonomia degli istituti scolastici finalizzata alla creazione di un sistema scolastico integrato più aderente ai modelli locali ( con il concorso delle forze sociali, per dare una maggiore identità socio-territoriale alle strategie educative ), dove, tra l’altro, il perno della proposta formativa deve diventare sempre più il “lavoro” e sempre meno la “neutra” conquista del titolo di studio.
Scuole ed Enti locali sono tra i soggetti che agiscono sul territorio per garantire il diritto allo studio, inteso come diritto all’apprendimento, degli studenti. Ognuna delle due Istituzioni è chiamata a rispondere in modo diverso, sulla base della specifica finalità istituzionale, al compito di educare le nuove generazioni, anche attraverso la promozione di quel concetto di cittadinanza che, partendo dalla comunità locale, si apre alla dimensione europea e mondiale (si pensi alla Dichiarazione universale dei Diritti umani) e costituisce il fondamento del ruolo attivo, nel contesto sociale, di ogni individuo. Una politica scolastica interistituzionale sul territorio, che sappia creare una rete d’interventi interconnessi ma specifici a favore delle nuove generazioni, è la sola via che possa garantire la riuscita nel campo della formazione, a fronte della complessità dello scenario attuale.
E lo strumento privilegiato per tessere questa rete solidale di collaborazioni e di interscambi è per ogni Scuola il Piano dell’Offerta formativa; in esso il territorio non potrà essere assunto come una variabile facoltativa, oggetto al più di uno studio approfondito, ma come l’orizzonte dentro il quale s’iscrive il percorso formativo e si giocano le occasioni di apprendimento degli alunni, attraverso un interscambio progettato e organizzato tra la Scuola – a cui spetta lo specifico dell’insegnamento delle discipline – e gli altri Soggetti istituzionali .
A.S. 2014-2016 Terra Comune. Mappa di Comunità della Valassina e dell’Alta Brianza
[1] G. Caminada (a cura di), Le terre del Lario e del Ticino. Il territorio come matrice culturale e educativa, Milano 2001.
[2] In proposito, si considerino gli studi di quei settori della psicologia cognitiva che studiano il modo in cui gli individui percepiscono e si rappresentano lo spazio nel quale vivono. In particolare, si consideri che si deve a L. Wittgenstein (1967) e poi più esplicitamente a N. Hanson (1965) l’aver sottolineato che il contesto è il fattore fondamentale che determina la possibilità stessa di una rappresentazione; esso si delinea con una configurazione o struttura che ordina i fenomeni pur senza essere un fenomeno. Sulla conoscenza tacita o inespressa si fonda la prospettiva epistemologica di M. Polany (1979) sintetizzabile nell’affermazione di una preliminarità del conoscere rispetto al discorso che lo esprime e alla funzione denotativa dello stesso.
[3] R. Massa, Educare o istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Milano 1987.
[4] T. Makiguchi, L’educazione creativa, Firenze 2000.
[5] G. Caminada, Tatanka in paese. Percorso multilinguistico di appropriazione ambientale, Relazione anno di prova 1996-97, Direzione Didattica di Carlazzo.
[6] J. Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri 1992, p. 109.
[7] J. Bruner, Op. cit., p. 131.
[8] T. Giani Gallino, Quando ho imparato ad andare in bicicletta, Editore Raffaello Cortina, 2004.
[9] K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, p. 340.
[10] J. G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Zanichelli, Bologna 1971, p. 214.
[13] C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, p. 92.
[14] A.D.Smith, Il revival etnico, Il Mulino, Bologna 1987, p. 75.
[15] G. Caminada (a cura di), Op. cit., Milano 2001.
16 G. Caminada (a cura di), Op. cit., Milano 2001. Nell’accezione di D. Demetrio, Saggi sull’età adulta. L’approccio sistemico all’identità e alla formazione, Milano, Unicopli, 1986, mettersi dalla parte del continuum vitale significa accogliere una prospettiva di ricerca con la quale si intende sottolineare l’intrinseca plasticità, nelle diverse fasi della vita, di alcune costanti esperienziali nel corso delle quali, pur di fronte a mutazioni e cambiamenti, esse si ripropongono in forma di palinsesto. Sul continuum, al di là delle innumerevoli cancellature e riscritture, sono sempre rintracciabili gli elementi essenziali con i quali il soggetto può stilare la propria, personale sceneggiatura.
[17]G. Caminada (a cura di), Op. cit., Milano 2001.
[18] H. Gardner, D. H. Feldman, M. Krechevsky (a cura di), Cominciare a costruire dalle potenzialità dei bambini, vol. 1, Edizioni Junior, Bergamo 2002.
[19] G. Caminada (a cura di), Op. cit., Milano 2001.