Gli anni compresi tra il 1920 e il 1950 sono un periodo fondamentale per la storia d’Italia. Un intervallo che vede sia l’intero ventennio fascista, sia l’avvio della democrazia repubblicana e nel quale si consolidano le istituzioni di governo dell’economia, si amplia il rapporto tra Stato e economia, si moltiplicano gli enti pubblici: a quell’epoca risalgono molti istituti ancora vigenti. Di sotto alla pur conservata forma dello Stato monarchico, dominò il potere personale del Duce del Fascismo e Capo di Governo, Benito Mussolini (1883-1945). Il Partito Nazionale Fascista fu l’unico movimento politico autorizzato a esistere e al quale le leggi riconobbero funzioni istituzionali mentre ai suoi iscritti furono riservati determinati impieghi: non si poteva essere pubblici funzionari, ad esempio, se non si era iscritti al PNF. Inoltre, al PNF spettava per legge l’organizzazione e l’indottrinamento ideologico delle masse popolari che venivano, sin dalla più tenera età, anche inquadrate in organizzazioni paramilitari (Figli della lupa, Balilla, Avanguardisti, …). Il fascismo, tuttavia, nonostante l’indubbia integrazione di carattere autoritario e sociale che operò nello Stato e le diverse ambizioni di Mussolini, fu un totalitarismo imperfetto. La crisi del dopoguerra e il fascismo. Il disagio creato dalla crisi economica indebolì gravemente il movimento sindacale, rendendo ancora più incerte le prospettive dell’opposizione di sinistra; Giolitti tentò di reagire alle difficoltà economiche impostando una politica finanziaria volta a aumentare il carico fiscale sui ceti abbienti, con un’imposta sui profitti di guerra e con l’obbligo della nominatività dei titoli azionari, ma anche il quadro internazionale era mutato. Suggestioni rivoluzionarie e internazionalismo operaio si contrapponevano all’esaltazione nazionalistica, che a sua volta concorreva al deterioramento del sistema politico esistente. La sfiducia verso il parlamentarismo e la democrazia, già affiorata prima della guerra nella stessa cultura liberale, uscì potenziata dall’immediato degenerare della lotta politica e sociale appena cessata la disciplina di guerra. Il suffragio universale si rivelò capace di effettivo potere di sovversione, tanto che nelle prime elezioni dopo la guerra, quelle del 1919, il sistema dello scrutinio di lista ideologizzò fortemente, rispetto alla tradizione, i contrasti politici, riducendo il peso dei notabili tradizionali e richiedendo un’organizzazione politica e propagandistica di partito che il mondo liberale e moderato non possedeva e non era in grado di darsi. Il nuovo sistema elettorale, che passò senza resistenza da parte della classe di governo, avanzato dalle forze che più le si opponevano, favorì proprio quelle forze che in vario modo e misura si contrapponevano nei valori e nei principi al mondo liberale. Il clima politico e sociale era mutato e la classe dirigente liberale e moderata si ritrovò sostanzialmente incapace di affrontare la nuova realtà, ancorata alla sua visione dello Stato come entità superiore alle parti in lotta, con funzioni di arbitro fra loro e di garante della correttezza legale dello scontro: non era sulla base di una simile concezione che la classe di governo poteva sperare di conservare il controllo dell’opinione pubblica. In questa si diffuse rapidamente un’avversione profonda per il socialismo che, con una violenza inusitata, negava e dissacrava nella teoria e nell’azione tutti i valori ai quali le classi dirigenti si sentivano più legate e, intorno a questo nucleo centrale di reazione psicologica e morale alla pressione socialista, si organizzò, nella classe media e nella piccola borghesia, la serie di atteggiamenti che dovevano rapidamente spostare a destra l’asse dell’opinione pubblica nazionale attraverso un processo che si svolse su due piani. Da un lato una petizione rivoluzionaria massimalista, che si traduceva in un’azione politica violentissima, ma senza un concreto sbocco rivoluzionario; dall’altro una reazione psicologia e morale che dislocava l’intera spina dorsale della società nazionale su posizioni di aperto rifiuto della democrazia e dei metodi di lotta liberali. Quest’ultimo piano, in particolare, vide il collocarsi degli ambienti del grande capitale finanziario e industriale e della grande proprietà fondiaria, per un gioco di difesa dei loro interessi, minacciati dalla piega presa dalla lotta sociale. E proprio per l’esatta percezione del rapido evolvere dell’opinione pubblica in questo senso, un movimento avventuristico come quello fascista, sorto con tendenze repubblicane e socialisteggianti, passò nel giro di pochi mesi su posizioni diametralmente opposte, rimanendo fermo nella considerazione della violenza come solo mezzo per la condotta della lotta contro il «bolscevismo» (termine rimasto per molti decenni al centro della sensibilità politica della classe media e della piccola borghesia italiane, che faceva riferimento alle vicende sovietiche, identificandole con una materializzazione di tutti i temuti pericoli della situazione italiana e rappresentandole con i colori della più fosca violenza e disperazione). La crisi profonda che colpiva l’Italia unita non fu percepita dalla classe di governo tradizionale che intese subito la portata della spinta di sinistra ma, reagendovi, non seppe pensare ad altro che a “lasciar fare” ai fascisti per domare il pericolo rosso, salvo poi a chiamare i socialisti turatiani al potere per liquidare le squadre in camicia nera. Si credeva che Mussolini poteva essere messo da parte e che fosse temporaneamente servito a riportare l’ordine e a spegnere gli ardori rivoluzionari delle masse. Ma Mussolini si era, ormai, fatto interprete della volontà di una parte della classe dirigente di portare un attacco a fondo contro il movimento operaio e di stabilizzare la situazione economica, sociale e politica del paese. Adesione e sostegno al fascismo. Il fascismo fu costituito da un nucleo essenziale piccolo-borghese, da cui attinse i suoi elementi caratteristici e direttivi, attorno al quale si realizzarono nel tempo convergenze più larghe: negli anni ’30, nel momento della sua maggior fortuna, anche l’alta borghesia, la borghesia professionistica e, perfino, cospicui settori della classe operaia si riconosceranno nel regime, mentre nelle classi contadine, fra cui il fascismo aveva raccolto adesioni fin dall’inizio, il consenso andò crescendo anche più largamente. Abbandonato il generico e demagogico programma del 1919, i fascisti organizzarono delle squadre d’azione che scatenarono una spietata guerriglia contro le organizzazioni dei lavoratori (prima socialisti, poi cattolici), i loro partiti e i loro giornali, uccidendo esponenti della sinistra, compiendo spedizioni punitive contro i comuni in cui l’opinione pubblica era orientata prevalentemente a sinistra: lo squadrismo era il contenuto stesso dell’azione politica, che si poteva riassumere nell’assunto primario della liquidazione fisica di coloro che erano individuati come avversari. I governi permisero che le spedizioni punitive si svolgessero liberamente e che, in vari casi, gli organi periferici dessero allo squadrismo mezzi, concreti incoraggiamenti, protezione. Ma il calcolo giolittiano di lasciare che le opposizioni si neutralizzassero a vicenda, esautorandosi in una guerriglia che pareva non avesse sbocco politico, per raccogliere il frutto di ordine e tranquillità nel paese, si dimostrò profondamente errato. Alle elezioni del 1921, socialisti e popolari mantennero, nonostante il terrorismo fascista, le posizioni già precedentemente conquistate, ed i liberali non ottennero la maggioranza che Giolitti sperava di conseguire. Alle dimissioni di Giolitti seguì la formazione di un governo presieduto da Ivanoe Bonomi (1873-1951, presidente del consiglio dal luglio 1921 al febbraio 1922), durante il quale lo squadrismo poté dispiegarsi in tutta la sua ampiezza e virulenza. Nelle elezioni del 1921, i fascisti mandarono alla Camera trenta rappresentanti, un gruppo relativamente ristretto, in rapporto alla forza parlamentare dei grandi partiti di massa ma le forze politiche democratiche, pur largamente rappresentate in parlamento, erano paralizzate nel paese dall’iniziativa dei fascisti e dall’orientamento dell’apparato statale. Mussolini intuì allora la necessità di eliminare dalle file del suo partito e dal suo programma quelle punte estremistiche ed eversive e quel tanto di repubblicanesimo e di laicismo che poteva ancora suscitare timori nelle forze conservatrici e che derivavano dall’origine piccolo-borghese del movimento; cosicché anche il nuovo papa Pio XI (Achille Ratti, 1857-1939), eletto nel febbraio del 1922, poté mostrare la sua simpatia verso un fascismo più rispettabile e togliere l’appoggio del Vaticano al partito popolare (da questo punto di vista è anche da considerare la «conciliazione» con la Chiesa, attuata dal fascismo con i Patti Lateranensi nel 1929, che portò alla chiusura della «questione romana», anche se in realtà, la «conciliazione», era stata conclusa da entrambe le parti nella prospettiva della propria politica. Come posizione di fondo, il fascismo interessava alla Chiesa in quanto difesa dal temuto pericolo «bolscevico», mentre la Chiesa interessava al fascismo per l’appoggio sociale e morale inestimabile che poteva averne e per la possibilità che gliene derivava di presentarsi come restauratore dell’integrità della tradizione nazionale, di cui la Chiesa non poteva non essere considerata parte essenziale). Le divergenze fra i socialisti sull’atteggiamento da adottare di fronte all’offensiva fascista, poi, portarono, nel 1922, ad un’ulteriore frattura del partito, dal quale si staccò una minoranza riformista guidata da Giacomo Matteotti (1885-1924) e alla rottura dell’unità d’azione tra il partito e la Confederazione del lavoro. Il quadro della crisi delle forze politiche non fasciste era completo e Mussolini si rese conto che poteva ormai porsi l’obiettivo della conquista del potere a breve scadenza, anche per le ulteriori debolezze del governo di Luigi Facta (1861-1930), succeduto a Bonomi, presidente dell’ultimo ministero liberale prima dell’avvento del fascismo. Il 26 ottobre 1922 a Napoli dove si era tenuto il congresso del partito fascista si formò un «quadrunvirato» fascista formato dal generale Emilio De Bono (1866-1944), da Italo Balbo (1890-1940), da Cesare De Vecchi (1884-1959) e dal sindacalista Michele Bianchi (1883-1930), col compito di preparare il colpo di forza contro il governo, la cosiddetta «marcia su Roma». Mussolini che era a Milano si riservava l’impostazione e la direzione politica della manovra. Il presidente del consiglio propose al re di decretare lo stato d’assedio, cioè di mandare le truppe contro i fascisti che si erano accampati alle porte di Roma. Il re rifiutò di firmare il decreto e offrì, invece, a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo (28 ottobre) che, tuttavia, non rappresentava ancora una svolta radicale e ottenne una larga maggioranza alla Camera.
Giulia Caminada (articolo pubblicato nel 2003)