Entrare nelle vicende del Novecento significa indagare una sequenza di eventi, talvolta ancora presenti nella memoria, che ha una portata generale su tutta la storia avvenire dell’umanità. Cent’anni che aprono il ricordo del dramma delle guerre ma anche delle conquiste della scienza, della tecnica, del gusto. Un secolo da taluni definito come il <<secolo breve>>, che non si apre nel 1900 ma nel 1914, con l’inizio della Grande Guerra e la cui fine prematura viene, da molti, fatta coincidere con il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991. Per quanto l’assunzione di una data risponda alla necessità di fare appello a una qualche convenzione, tuttavia, non c’è dubbio che quelli indicati furono anni che cambiarono le sorti del mondo.
I primi anni del secolo furono caratterizzati da progresso economico, da relativo liberalismo e da vivace attività culturale e furono denominati <<belle époque>>, un termine affettuosamente ironico con cui tanti, più tardi, rimpiansero il <<mondo di ieri>> che, visto dalle tenebre dell’Europa fra le due guerre, pareva felicemente sereno. Una belle époque che sembra finire nel 1914, quando sorge la dimensione nuova della società di massa con tutto quello che ha comportato sul piano dell’economia, della vitalità, del cambiamento, della dimensione dei problemi. Ma anche con tutte le politiche che sono derivate a livello di riorganizzazione del potere secondo esigenze di massa. Il passaggio dalla belle époque, che continua fino all’agosto del 1914, a una tipologia fortemente orientata in senso totalitaristico è brusco. Dal 1914 al 1918 si consuma anche un’eredità plurisecolare: finisce l’Impero austro-ungarico, finisce l’Impero russo, finisce l’Impero turco ed è travolto anche il nuovo Impero germanico. Nel giro di quattro anni il cambiamento geopolitico è impressionante e le rotture che si creano provocano, in parallelo, conseguenze molto precise a livello di nascita di nuove nazionalità, di processi di decolonizzazione, di rifiuto della dimensione imperiale. Per contro nascono nuovi poteri. Prima di tutto quello degli Usa, sorto con la partecipazione alla prima guerra mondiale. In secondo luogo, con la rivoluzione bolscevica del 1917 nasce la potenza ideologica del comunismo sovietico. Benchè, allora, il Novecento assommi in sé molti elementi eterogenei, possiamo, non per sola convenzione suddividerlo in tre momenti: la prima guerra mondiale con le conseguenze che portano poi alla seconda e il terzo momento, che cominciato nel 1945 arriva ai giorni nostri, non è da sottovalutare, in contemporanea, il fenomeno nuovissimo dell’avvento della società di massa.
Il primo Novecento italiano. Se da una parte, gli anni di fine secolo sono per l’Italia anni di notevoli difficoltà (si pensi alla crisi del grano e a sommosse in varie parti del paese, culminanti nella sommossa di Milano e nell’eccidio ordinato dal generale Bava Beccaris), dall’altra, proprio in questi anni, comincia un periodo di vero e proprio boom economico che avrà i suoi sviluppi sensibili solo nella prima parte dell’”era giolittiana”. L’analisi delle vicende del primo Novecento italiano ci pone, poi, di fronte proprio ai due momenti storici che già abbiamo delineato nelle righe precedenti. Al clima di generale di fiducia col quale ebbe inizio il nuovo secolo subentrò, nel giro di pochi anni, la tragedia della prima guerra mondiale, seguita da una lunga fase di sconvolgimenti e di tensioni che è durata sino ai nostri giorni. L’iniziale periodo di ottimismo appariva tutt’altro che ingiustificato. Erano passati parecchi anni dall’ultima guerra europea; la scienza e la ragione avevano fatto sperare in un progresso costante e illimitato; il sistema liberale dimostrava la capacità di espandersi e di allargare la sfera dei diritti politici a nuovi strati di cittadini. Benchè i giudizi storici su Giovanni Giolitti (1842-1928) – il liberale piemontese che diede il suo nome ai primi anni del Novecento, fino allo scoppio della prima guerra mondiale (anni denominati oggi <<età giolittiana>>) – siano contrastanti, è pur sempre vero che toccò a lui, in Italia, il compito di svolgere le premesse del successo nella drammatica crisi di fine secolo toccò; inoltre, Giolitti, fin dal suo primo ministero aveva compreso la necessità di superare l’antitesi fra lo Stato e le classi lavoratrici. Fu un compito arduo perché la società italiana era socialmente disomogenea, dominata da profonde contraddizioni. Al centro dell’attività di Giolitti fu il tentativo di salvaguardare lo Stato liberale con il sopire i contrasti sociali così acuti nell’ultimo decennio dell’Ottocento, favorendo la promozione sociale e l’entrata nella vita politica delle masse operaie del Nord a spese di quelle contadine del Sud e di quelle bracciantili dello stesso Nord e tenendo lo Stato lontano dai conflitti di classe per assegnargli il solo compito di mediatore. Fu questo il periodo in cui il governo affrontò per la prima volta, con una legislazione sociale, la questione del Mezzogiorno. Questa politica produsse un periodo di relativa pace sociale che si accompagnò – in alcune regioni e per alcuni strati sociali – a un intenso sviluppo industriale, a un miglioramento delle condizioni di vita, a un accresciuto fervore intellettuale e culturale. In realtà già in quegli anni di ascesa economica e di relativo accordo tra le classi, la politica sociale giolittiana poté sopire, non risolvere, i contrasti sociali destinati a esasperarsi presto.
Trasformazione economica; socialisti e cattolici; il nazionalismo. La trasformazione economica si realizza con gradualità e, nello stesso tempo, con discontinuità, ma senza arresti. In alcuni periodi (1880-1887, 1896-1913) è anche rapida e profonda e determina l’industrializzazione del paese e una forte urbanizzazione. In altri (1860-1880) investe settori particolari ma importanti, determinando la formazione di un mercato nazionale e lo sviluppo di una rete di trasporti moderni con le ferrovie e con la navigazione a vapore. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’Italia, pur povera di risorse e relativamente assai sovrappopolata, è fra i paesi dotati di un apparato industriale e viene riconosciuta fra le sei maggiori potenze europee, pur se è implicitamente considerata l’ultima e la più debole di esse. Di quegli anni è anche la formazione di un movimento operaio e socialista, che porta con sé la costituzione dei partiti di massa e dei sindacati. Cresce anche l’organizzazione del movimento cattolico con la creazione di istituti per la facilitazione del credito, di circoli e associazioni ricreative, di scuole: si ha un lento ma costante reinserimento dell’organizzazione ecclesiastica nella vita pubblica. Il nazionalismo è l’altro movimento che si delinea nell’ambito dell’Italia unita, pur non avendo la struttura organizzativa di quello cattolico e di quello socialista, e tanto meno la loro diffusione popolare. I nazionalisti hanno il loro principale strumento di azione in circoli intellettuali, in riviste e giornali; e la massa più vivace che essi possano manovrare è fatta di studenti. Espressione dal carattere borghese, a differenze dei socialisti e dei cattolici, i nazionalisti esigono il potenziamento dello Stato uscito dal Risorgimento. Depurarlo dall’inquinamento democratico è il primo compito. La polemica antiparlamentare è feroce, ma le loro alternative istituzionali rimangono a lungo confuse, così come i loro programmi di espansione nazionale. Il quadro di riferimento è assai eterogeneo, forse unificato dall’elemento della violenza, in quegli anni motivo ripreso anche nell’ambito socialista. Ma, soprattutto, l’esaltazione della violenza si sposa con una visione assai fredda della guerra come potente strumento di trasformazione etico-politica e come occasione di rilanci autoritari, da cui molti ambienti conservatori rimasero vivamente impressionati. Il movimento socialista, quello cattolico e il nazionalismo rompono in maniera complessa il quadro ideologico e politico-sociale dell’Italia risorgimentale, benché sospinti, come il liberalismo tradizionale, da ispirazioni e impulsi diversi. I socialisti, tra un’ala riformista di socialismo democratico e un’ala rivoluzionaria, sindacalista o massimalista, che punta alla sovversione violenta e immediata e coltiva il mito dello <<sciopero generale, conoscono tutta una gamma di posizioni. I cattolici si articolano a loro volta su due posizioni estreme: un conservatorismo tradizionale, da un lato, e un orientamento assai spinto in senso democratico, popolare e riformatore, dall’altro. Ne meno nette sono le differenziazioni tra Nord e Sud, tra città e campagna. Lo Stato liberale italiano crebbe, allora, avendo attorno e contro di sé masse nemiche di popolo. A sinistra c’era la nuova organizzazione <<internazionalista>>, come si diceva allora, ispirata e guidata per anni da suggestioni dottrinarie anarchiche e, poi, il movimento contadino e operaio socialista. A destra, il vasto mondo cattolico duramente ancorato al rifiuto dello Stato scomunicato. Il problema del liberalismo fu, quindi, di integrare nella compagine statale le inquiete forze sociali, prima che politiche, che costituivano la realtà nuova dell’Italia unita.
Giulia Caminada Lattuada