2 – (G.C.) Dall’unità d’Italia all’inizio del Novecento.

Sin dalla prima fase, il movimento nazionale vide il fiorire di società segrete il cui programma si orientava, soprattutto, verso l’esclusione dell’Austria dalla penisola e verso un ordinamento costituzionale per gli Stati italiani, lasciando nel vago eventuali più concrete determinazioni. Nelle particolari condizioni italiane assunse importanza il fatto che le società segrete né durante la fase cospirativa, né quando ebbero nelle proprie mani il potere, riuscirono a trascinarsi dietro vaste masse. Nel quadro di queste caratteristiche generali fra gli spiriti più maturi dell’Italia rivoluzionaria e romantica, aspirante insieme a unità e libertà, si staglia la figura di Giuseppe Mazzini (1805-1872), e benché il mazzinianesimo non esaurisse le concezioni di pensiero che si raccolgono intorno al Risorgimento italiano, al mazzinianesimo bisogna riconoscere la capacità di aver inculcato il principio dell’unità come sola dimensione possibile dell’organizzazione politica auspicabile per la comunità nazionale italiana; al mazzinianesimo è da attribuire, inoltre, il ruolo nella diffusione, soprattutto negli strati più colti del paese, della convinzione che la repubblica fosse l’istituzione più atta al nuovo Stato. Minore, ma non inesistente fu, invece, l’influenza dei repubblicani federalisti: molte petizioni di principio di Carlo Cattaneo (1801-1869) ebbero largo corso a livello di pensiero politico e storico. Nella situazione politica italiana successiva al 1861 e fino al 1876, i momenti decisivi furono, tuttavia, segnati dalla formazione dell’opinione moderata e liberale che si rifaceva al pensiero politico di Cavour e dalla quale fu espressa la classe dirigente dell’Italia risorgimentale al momento dell’unificazione. I moderati, in particolare, avevano avuto il sopravvento mantenendo la direzione del movimento risorgimentale e utilizzando anche l’attività dei mazziniani e dei rivoluzionari come elemento del loro disegno politico. In questo modo si crearono le condizioni perché la grande borghesia e l’aristocrazia imborghesita tenessero saldamente nelle loro mani la direzione del paese e n’orientassero lo sviluppo sociale e politico. Troppo potenti erano, tuttavia, le resistenze che i moderati unitari incontrarono nel paese: la loro scelta politica comportava lo scontro frontale con la Chiesa e l’esclusione delle masse contadine e di importanti strati della piccola borghesia da ogni possibilità di influenza nella vita dello Stato. In queste condizioni, la borghesia liberale fu costretta ad accettare il compromesso con forze sociali più arretrate, in particolare con la borghesia agraria dell’Italia meridionale, garantendo a questa la continuità del suo dominio e ricevendo in cambio il sostegno all’attuazione del programma unitario. Inoltre, per sopperire all’esiguità delle forze sociali su cui si basava il nuovo Stato, il partito moderato dovette dare un’impronta fortemente accentrata all’ordinamento politico-amministrativo, rinunciando a quelle idee di autonomia regionale che pur avevano fatto parte del suo programma, accentuando il peso della burocrazia ed affidando al Piemonte un ruolo privilegiato nella vita dello Stato. I democratici, dal canto loro, non avevano saputo opporre a questa linea un’alternativa efficace. La loro azione, pur decisiva per il conseguimento dell’unità, rimase subalterna e complementare rispetto a quella dei moderati: il rifiuto di affrontare la questione agraria e di sostenere le rivendicazioni sociali dei contadini fu il fattore fondamentale della loro debolezza. In questo contesto politico-sociale si svolse l’opera del governo unitario. Respinta la proposta più volte avanzata dai democratici della convocazione di un’assemblea costituente, fu adottato per il regno lo Statuto che Carlo Alberto aveva concesso al Piemonte nel 1848 e che lasciava al re larghi margini di indipendenza e di autonoma iniziativa rispetto al parlamento e al governo. Il diritto di voto fu limitato in base al censo, cosicché nelle elezioni del 1861 risultarono iscritti poco più di quattrocentomila elettori. Al momento in cui fu avviata la nuova legislazione che doveva dare al paese le basi istituzionali e giuridiche venne anche a mancare l’apporto di Cavour che morì il 6 giugno 1861. Egli, comunque, aveva già tracciato, tra il 1859 e il 1861, le linee dell’organizzazione del nuovo Stato, alle quali si adeguarono la maggioranza moderata del parlamento e i ministeri. Nella sostanza, il nuovo ordinamento fu il risultato dell’estensione al regno d’Italia di istituti già esistenti nel regno di Sardegna, che avevano come modello il sistema amministrativo napoleonico e assicuravano il rigido controllo del governo, attraverso i prefetti, su tutta la vita locale. Dal 1861 al 1876 si registrarono, poi, fatti politico-militari significativi per la nuova Italia: l’alleanza nel 1866 con la Prussia e la partecipazione alla nuova guerra contro l’Austria con la conseguente annessione di Venezia e della sua regione e la conquista militare di Roma con la fine dello Stato Pontificio, nel 1870; il debellamento della guerriglia borbonica nel Mezzogiorno, che si era trasformata in una vera e propria guerra civile, sbrigativamente catalogata come <<lotta al brigantaggio>>, il maggiore e solo focolaio di ostilità armata al nuovo Stato da parte dei sostenitori del vecchio regime, alimentato dalla resistenza borbonica. Dalla convenzione di settembre alla liberazione di Roma. Il 15 settembre 1864 fu stipulata una convenzione secondo la quale la Francia si impegnava a ritirare il suo presidio militare da Roma entro due anni in cambio della garanzia italiana di proteggere il territorio pontificio da attacchi esteri. Il governo italiano si impegnò, inoltre, a trasferire la capitale da Torino a Firenze. Quest’ultima clausola provocò tumulti a Torino e i democratici la interpretarono come una definitiva rinuncia alla liberazione di Roma. La questione romana restava aperta in tutta la sua gravità, esasperata dalla pubblicazione del Sillabo, che ribadì l’ostilità della Chiesa nei confronti del liberalismo e la sua intransigenza sul problema del potere temporale. Il 1866 fu per l’Italia l’anno della terza guerra d’indipendenza che condusse all’annessione del Veneto con plebiscito del 21 ottobre. La condotta della guerra, nel corso della quale l’Italia subì due gravi sconfitte, suscitò gravi polemiche contro il governo e i comandi militari. Si fece sentire il peso delle tendenze conservatrici o reazionarie; riemersero con vigore contrasti regionali e le forze regionaliste cercarono di sfruttare il malcontento popolare. A Palermo nel settembre del 1866 scoppiò una grave rivolta; il risultato della crisi politica aperta dalla guerra fu un’accentuazione della linea autoritaria e repressiva del governo, soprattutto nei confronti della Sicilia. Il governo accelerò l’attuazione del suo programma economico e finanziario, anche se la guerra e l’assunzione del debito pubblico del Veneto avevano ulteriormente allargato il disavanzo e inciso sul bilancio statale. Gli anni che seguirono furono anni di inasprimento della politica fiscale, orientata a far gravare sulle popolazioni rurali l’onere principale della trasformazione economica e sociale del paese. Una tassa sul macinato del 1868 fu accolta da inutili e sanguinosi tentativi di resistenza da parte dei contadini, specialmente al Nord. Fallita la strada delle trattative e quella dell’insurrezione con il crollo dell’impero francese dopo la sconfitta di Sedan, il governo italiano si considerò sciolto dagli impegni presi con la convenzione di settembre e decise di procedere alla liberazione di Roma. Il 20 settembre 1870, un corpo di bersaglieri penetrò a Roma attraverso la breccia di Porta Pia e il 2 ottobre un plebiscito approvò l’annessione della città. Nell’anno successivo il parlamento italiano con la legge delle guarentigie garantiva alla Chiesa il libero esercizio dei suoi poteri spirituali e la piena sovranità sui palazzi del Vaticano, del Laterano e sulla villa di Castelgandolfo ed assegnava al nuovo Stato Vaticano una dotazione annua. Il principio ispiratore della legge era quello che Cavour aveva sempre sostenuto: libera Chiesa in libero Stato. Il papa non riconobbe valida questa legge e nel 1874 invitò i cattolici italiani con una bolla (il non expedit) a non partecipare alla vita politica e alle elezioni ed a porsi in questo modo contro lo Stato. Legislazione unitaria, riforme, politica economica e finanziaria della Destra.  Unificazione amministrativa e dei codici (completata entro il 1865) liberazione del Veneto e di Roma, lotta contro il brigantaggio e resistenze legittimiste non esauriscono i compiti fondamentali del governo nei primi anni di vita unitaria: dovevano essere create le condizioni per l’incremento economico e la rete di servizi pubblici indispensabile al progresso civile. Benchè il giudizio degli studiosi su questi anni sia controverso, l’adozione del sistema liberistico, l’unificazione del mercato, il potenziamento delle infrastrutture e la privatizzazione delle terre ecclesiastiche diedero una spinta ulteriore alla trasformazione capitalistica e all’incremento produttivo dell’agricoltura anche se gli effetti di queste misure e di tutta la politica generale dello Stato furono profondamente diversi al Nord e al Sud e, lo squilibrio tra le due parti del paese, che costituisce il fondamento della questione meridionale e della mai risolta questione settentrionale, rimase come un carattere precipuo della società, dell’economia e dello Stato nazionale. La <<crisi di fine secolo>>. L’arco di tempo compreso tra l’unità e l’inizio del ‘900 va quindi valutato con le sue luci e le sue ombre, le sue debolezze non meno che la sua determinazione a tenere insieme una compagine statale e sociale tanto debole. Il paese era immaturo sia dal punto di vista economico, che sociale, che civile. Conseguentemente il problema delle istituzioni venne ricondotto dagli studiosi a conseguenza e non a causa dei gravi mali che affliggevano lo Stato italiano. Nel 1876 salì al potere la Sinistra parlamentare, sotto la direzione di Agostino Depretis, che tenne la presidenza del consiglio fino al 1887. Di questi anni è il <<trasformismo>>, una pratica politico-parlamentare della Sinistra che si sforzò di assicurare al governo una più larga maggioranza parlamentare, facendo in modo che in essa confluissero anche gruppi appartenenti ad altri schieramenti politici, in partcolare alla Destra. Ma l’ampliamento e la compattezza della maggioranza governativa non furono raggiunti soltanto in base all’accordo su un programma e su una linea politica. Una parte del successo di Depretis e del suo trasformismo va attribuita anche alla pratica della concessione di favori e garanzie di potere locale a gruppi politici e singoli deputati disposti a entrare in maggioranza. Il governo si piegò in tal modo a incrementare lo spirito localistico, il clientelismo politico e la tendenza a sovrapporre interessi particolari a quelli generali dello Stato: mali che si sono poi perpetrati nella vita politica italiana e hanno creato gravi remore alla formazione della coscienza democratica. A partire dalla morte di Agostino Depretis nel 1887 e sino al 1896, al <<trasformismo>> subentrò una ben diversa interpretazione politica di cui fu l’artefice il siciliano Francesco Crispi (1818-1901), antico cospiratore mazziniano, che assunse la carica di presidente del consiglio. Definito da Mussolini un precursore dello stato forte e nazionalista che il Fascismo sosteneva come proprio principale postulato, ammodernò l’organizzazione pubblica ma la organizzò anche politicamente in senso autoritario. Gli anni di quella che è stata chiamata la dittatura di Crispi registrarono una gravissima situazione di corruzione morale e di tensioni sociali che lo statista tendeva a risolvere con la legge marziale, la repressione e l’inizio di una politica di espansione imperialista in Africa, mentre spontaneamente i flussi migratori si dirigevano verso le Americhe. Gli anni di Crispi culminarono con la gravissima sconfitta di Adua nella guerra italo-abissina del 1896, che rivelò agli occhi del mondo quanto fosse velleitario l’imperialimo italiano e quanto fosse debole strutturalmente e politicamente il nuovo Stato. Continuarono anni di reazione e di autoritarismo e la <<crisi di fine secolo>> culminò nel 1900 con l’assassinio di re Umberto I (1844-1900). Fu solo con l’avvento al potere dei liberali riformatori, il lombardo Giuseppe Zanardelli (1826-1903) e il piemontese Giovanni Giolitti (1842-1928) che il paese conobbe, dal 1901 e sino alla prima guerra mondiale, il momento più felice dell’intera età liberale.

Giulia Caminada Lattuada (articolo pubblicato nel 2003)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *