Il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà
Carlo Cattaneo (1801-1869)
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Ho conosciuto Carlo Cattaneo sui banchi di scuola ed è stato amore a prima vista. Di grande cultura e di forte passione, figlio dell’illuminismo, fu protagonista del suo tempo. Sapeva comunicare e perseguiva un obiettivo. Un ideale. È lui il protagonista di primo piano nelle Cinque Giornate di Milano, l’insurrezione per mezzo della quale il popolo milanese si liberò dal dominio austriaco, tra il 18 e il 22 marzo 1848. Il più grande episodio della storia risorgimentale italiana, oltre che dei moti liberal-nazionali europei del 1848-49.
Cattaneo con il popolo, Mazzini con i notabili del Regno Sabaudo e i liberali piemontesi. Sono due punti di vista diversi a cui guardare alla storia. C’era Cattaneo là, partecipe e testimone assai acuto dell’efficacia dell’iniziativa popolare e del fallimento dei moti mazziniani. A testimonianza che, guidata da uomini consapevoli degli obiettivi della lotta, la lotta poteva rivelarsi in grado di influenzare le decisioni del re Tentenna, Carlo Alberto di Savoia, che dopo aver a lungo esitato, approfittando della debolezza degli austriaci in ritirata, dichiarò guerra all’Impero asburgico (Prima guerra d’indipendenza).
La vita di Cattaneo fu contrassegnata quasi continuamente da una decorosa povertà. Scaraventato nella storia, lottò con tutto se stesso per quello in cui credeva divenendo così una delle più belle figure del Risorgimento. Credeva nell’uomo, credeva nel progresso scientifico che doveva accompagnare, gradualmente, l’evoluzione politica dell’Italia. Fu lui ad adoperarsi assiduamente per migliorare le condizioni economiche e sociali del Lombardo-Veneto al fine di assicurarne l’autonomia in seno all’Impero asburgico. Un analogo processo di sviluppo politico nelle altre parti d’Italia avrebbe dovuto condurre a una federazione italiana indipendente. Fu attore e testimone dei suoi tempi. E diede testimonianza di quello che viveva, oltre che con la vita con la sua grande produzione letteraria. Ne è esempio il suo libro Dell’insurrezione di Milano nel 1848 pubblicato in Francia, in francese. Il Piemonte si accanì subito a far sequestrare il volume, proprio là dove era stato pubblicato. Cattaneo non avrebbe mai sperato che potesse essere mai letto in italiano. Sotto gli Austriaci, chi aveva in casa questo libro rischiava la forca o i lavori forzati. E anche dopo l’Unità, i Sabaudi, per l’intero secolo ne ostacolarono la diffusione… Infelici gli eroi che temono la storia.
Cattaneo aveva una visione. Sono pochi gli uomini a cui è dato avere una visione e chi ha una visione deve seguirla. Come lui, che spese la sua vita per la Confederazione di stati italiani sullo stile della Svizzera. Egli, infatti, avendo stretto amicizia di vecchia data con politici ticinesi come Stefano Franscini, aveva ammirato nei suoi viaggi l’organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputava proprio a questa forma di governo.
Non era favorevole, a differenza di Mazzini, ad una Repubblica unitaria, temeva che l’accentramento avrebbe sacrificato l’autonomia dei Comuni. Il federalismo avrebbe dovuto essere il comune sentire della gente, sarebbe dovuto partire dal basso, da un patto de popolo. Credeva nella società come fatto naturale, primitivo, necessario, permanente, universale…; è sempre esistito un federalismo delle intelligenze umane, diceva. È sorto perché è un elemento necessario delle menti individuali. Più scambio e confronto ci sono, più la singola intelligenza diventa tollerante; in questo modo anche la società sarà più tollerante: i sistemi cognitivi dell’individuo devono essere sempre aperti, bisogna essere sempre pronti da analizzare nuove verità. Così come le menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di fondo comuni; attraverso il federalismo i popoli possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica: il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà, il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze. La libertà economica è fondamentale per Cattaneo, è la prosecuzione della libertà di fare: la libertà è una pianta dalle molte radici e nessuna di queste radici va tagliata altrimenti la pianta muore.
Nel 1839 fondò la rivista Il Politecnico e la sua produzione letteraria è immensa. Intorno al 1848 si trasferì nei pressi di Lugano, dove dimorò fino alla morte. Ciò non significò però per lui il rifiuto dell’impegno civile che elaborò in numerosi scritti divenendo così il Padre del Federalismo democratico- liberale che si ispirava alla storia e all’esperienza degli Stati Uniti d’America e a quelle della Svizzera.
Nel 1860 si recò anche a Napoli da Garibaldi, nell’inutile tentativo di costruire un assetto federativo per il nuovo stato che stava sorgendo. Eletto più volte deputato del Regno d’Italia non andò in Parlamento, in quanto incompatibile con i suoi valori più profondi.
Negli ultimissimi anni della sua vita restò in contatto con pochi amici: Giuseppe Ferrari, Agostino Bertoni, qualche scapigliato milanese come Carlo Dossi. In una delle sue ultime lettere a Bertani si lamentava che gli italiani stavano costruendo una nazione alla francese, dove l’autoritarismo avrebbe finito col prevalere su tutto.
Morì il 6 febbraio 1869 e le sue spoglie furono trasportate, tre mesi dopo, a Milano e qui poste, nel 1884, nel Famedio del Cimitero Monumentale, accanto a illustri concittadini come Alessandro Manzoni e Carlo Forlanini. Nel 1901, per iniziativa di un comitato democratico, nel largo di via Santa Margherita, venne inaugurato a Milano il monumento che lo mostra nell’atto di rifiutare l’armistizio proposto da Radetzky.
Su di lui piomberà una congiura del silenzio che durerà quasi un secolo. Gli scritti integrali del “Politecnico” furono pubblicati dall’editore Bollati-Boringhieri solo nel 1989, anno in cui si tenne anche il primo convegno internazionale a lui dedicato.
profcamiNada
Epilogo
Due giorni dopo che Garibaldi era entrato trionfalmente a Napoli, il 7 settembre 1860, l’esercito piemontese, comandato dal generale Cialdini, entrava nel territorio pontificio, invadendo la Romagna e le Marche. L’azione, decisa dal Cavour, aveva lo scopo di evitare la proclamazione della repubblica nel sud e un eventuale tentativo di Garibaldi di proseguire verso Roma per conquistarla. Un mese dopo Cavour fa approvare dal parlamento piemontese una legge che accetta le annessioni incondizionate dell’Italia centrale e dell’Italia meridionale. Tra brogli di ogni genere e in tutta fretta il plebiscito del 21 ottobre aveva dato i seguenti risultati: in Sicilia, 43.053 “sì” e 667 “no”; nel meridione continentale, 1.302.064 “sì” e 10.312 “no”. Massimo d’Azeglio grida allo scandalo. Cinque giorni dopo Garibaldi consegna l’intero Mezzogiorno a Vittorio Emanuele II e il 9 novembre, non avendo ottenuto dal re un anno di governo nell’Italia meridionale, partiva per l’isola di Caprera. Già nell’autunno del 1860 contadini ribelli del sud cominciarono ad organizzarsi in bande armate contro i piemontesi. Intanto il duca di Maddaloni, deputato al parlamento, accusa il governo d’aver compiuto un’invasione: “Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortes ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nei regni del Bengala”.