Ma è anche un capo abbastanza costoso dell’abbigliamento di una persona. Oggi come ieri. Ora prendiamo il cappotto come simbolo dell’ideale. Qualcosa che scalda il cuore e muove le intelligenze, che ripara dalla pochezza dello scorrere del tempo, che protegge l’identità di una persona nella crescita e nei moti di cambiamento della vita. Qualcosa che non costa poco perseguire e tentare di raggiungere ma che proprio per questo suo impegno quasi sempre dà valore a una vita. E un cappotto, il dato dei tempi, fu appunto il simbolo scelto da Gogol per una novella, semplice e forse per alcuni ingenua, ma che dopo più di un secolo, sta ancora ad indicare uno dei modi con cui si manifesta la realtà nel fluido della vita. L’ideale che accende la passione. La passione che apre alla nascita e allo sviluppo di una dirompente, lacerante, creativa forza rivoluzionaria.
Nella Russia della metà del XIX secolo, quando il paesaggio del tempo – scriveva un contemporaneo – era somigliante a un deserto con una prigione nel mezzo e sopra, al posto del cielo, un bigio cappotto militare. Quando la logica della reazione era la burocrazia, pressappoco fine a se stessa e strumento di corruzione da parte della classe dominante che faceva funzionare la compagine nazionale come un’immane caserma, abbandonando alla libertà privata l’uso dei soli bisogni inferiori, se mai favorendone gl’istinti bassi. Quando proprio dalla costrizione sofferta di un anno in cui l’autore dovette seppellirsi in un ufficio ministeriale – meta comunque ai tempi ambita – esce Il cappotto e la protesta di Gogol contro un simile regime di brutalità in alto e di bestialità in basso, reciprocamente connesse. Uno sfondo o un contrasto che serve per svelare quale potrebbe essere l’uomo se l’ignoranza e la stoltezza dell’inganno esteriormente civile non lo immiserissero.
Gogol estraendo dai meandri miserabili dell’ambiente sociale russo del suo tempo un pietoso e angusto impiegato, Akàkii Akàkievic, quasi non dissimile dalla sua cannuccia di copista, tutta tesa al pennino vivace per l’inchiostro e obbediente al movimento quale altri gl’imprime , mirò anche a lanciare una fede, ossia che l’unica speranza di salvezza si dovesse cercare proprio nella nera coscienza contemporanea, quando fuor da essa riuscisse a sorgere un’anima atta a svolgerla in segni limpidi, una voce coerente, docile ma irriducibile, benché oppressa e spezzata dalla mano grossolana del tempo, eppure salva nell’eternità.
Ed ecco che il testo rompe la propria crosta, formata di parole e di frasi, per fare intravedere al lettore la sua grande forza sempre attuale, e il cappotto diventa uno stimolo con cui misurarsi, man mano che si procede nella lettura, per cogliere, talvolta tra le righe, delle intuizioni, delle idee, delle impressioni che caricano di suggestioni l’attualità. E al fondo la coscienza che l’uomo si esprime in ciò che fa e Akàkii Akàkievic diventa il simbolo dei molti che nella loro goccia scoprono il mare, perché vi si trasfondono e si rendono così partecipi di energie che nella goccia sono rispondenti a quella del mare. Mossi da quell’ideale che chiama in causa una complessità di valori, legati all’uomo e alla sua comunità di appartenenza e che chiamano l’uomo – certi uomini forse più che altri – a un servizio anonimo e ardente come l’amore originario.
Akàkii Akàkievic dopo averlo fuso e composto prova il metallo della sua anima. Ora basterà un tocco qualsiasi per farla risuonare: un oggetto che la tocchi da vicino. Allora s’intende come la necessità di farsi un cappotto nuovo assumesse agli occhi suoi l’importanza di un fatto spirituale supremo perché questa comunissima contingenza gli forniva un nuovo mezzo per svolgersi e valere.
Qualcosa che anche la morte non può cancellare, come la vibrazione di una campana solitaria scossa dal vento, la quale tramanda onde sonore anche se non ci accorgiamo di percepirle.
E nel vuoto delle apparenze prende le mosse un interrogativo che dovrebbe essere centrale nel dibattito odierno. Che senso dare alla nostra esperienza, legata alla precarietà dell’esistenza, nell’attuale epoca postmoderna? L’unica eredità che ci ha lasciato la caduta delle grandi ideologie sembra essere un pulviscolare soggettivismo; gli schemi morali universali e la tensione progettuale verso il futuro appaiono al crepuscolo e l’ultima forza trainante della vita sociale sembra essere l’edonismo della quotidianità. Le grandi certezze crollano. Gli avvenimenti, i mutamenti e le innovazioni richiedono nuovi modi di pensare la società. E anche se non è che un punto di passaggio tra passato e futuro, solo il presente è fonte feconda del pensiero. Ma ripartire dal presente allora, dalla contingenza dell’esistere, con la tensione individuale a farsi un cappotto può voler dire anche tentare di dare un volto nuovo, più umano allo scorrere dei tempi nella fermezza di chi non tanto esiste quanto vive. Perché nella molteplicità dell’esistenza, qualunque sia il grado di perfezione raggiunta, nessuno è in diritto di sentirsi incolpevole o esente da quanto accade di doloroso o di orrendo fuori di noi.
profcamiNada
Mi piace! Ci ho messo molto a leggerlo ma ne sono davvero entusiasta! Bellisimo proff..! 🙂 Bhe, l’ultima frase è la più vera..”Perché nella molteplicità dell’esistenza, qualunque sia il grado di perfezione raggiunta, nessuno è in diritto di sentirsi incolpevole o esente da quanto accade di doloroso o di orrendo fuori di noi.” NULLA DI PIU’ VERO E SIGNIFICATIVO DI UNA INTERA VITA.
sicuramente difficile, ma non ho dubbi sul fatto che possiate comprenderlo. E’ una recensione
Difficile relativamente; se ci metti la voglia nulla è difficile 😉
Giusto Debbi 😉
Giusto! 😉