(G.C.) Dal trash al writing. “Arte” alternativa

Ormai si sa. A seguire le strade dell’ispirazione artistica oggi si può trovare un’”opera d’arte” dietro ogni angolo. Magari tra i bidoni dell’immondizia, dove Mondino incontrò, tempi addietro, abiti da sera fatti con i sacchetti della spesa e dell’immondizia.

Da qualche anno a questa parte si parla di arte trash, in inglese spazzatura. Secondo questa corrente l’oggetto abbandonato viene raccolto, isolato, quindi mimetizzato o enfatizzato nell’opera d’arte. Sicuramente affascinante. Ma cosa potrà mai rappresentare tutto questo? Curioso a dirsi ma dentro a un barattolo, che all’osservatore disattento potrebbe sembrare vuoto, l’artista riesce a trovare qualcosa di universalmente rappresentativo: le scelte, le paure, la nostalgia, la violenza e la fragilità dell’uomo contemporaneo. Così la speranza di una nuova vita per il nostro vecchio barattolo usato, riesce perfino a esorcizzare la paura della morte presente nella fine di ogni cosa. Tra le mani di artisti come Tony Meredith, designer americano, contenitori di ogni tipo diventano insolite lampade, mentre bottoni, garze, fili di ferro e vecchi oggetti si combinano in nuove immagini che sorprendono e affascinano per le forme e i loro possibili significati. Volendo praticare questo sport cerebrale oggi i riferimenti non mancano: dalla Drap-Art di Barcellona, la maratona del riciclaggio pronta a diventare un appuntamento europeo, alla più vicina mostra sulla spazzatura artistica di Trento, tanto per fare un paio di esempi. C’è poi chi interpreta la strada come una pagina bianca, o meglio grigia. In questo caso gli artisti – sebbene non tutti siano d’accordo nel definirli tali – si chiamano writer (scrittore, in inglese). E la loro opera consiste nel deformare le lettere dell’alfabeto fino a farle evolvere in forme degne di questo nome. A questo scopo i writer, prevalentemente giovani o giovanissimi, girano per le città alla ricerca di muri che, a loro parere, necessitano di un po’ di colore. Quindi impugnano le bombolette spray e, a caratteri cubitali, spruzzano le loro “firme”. Vista l’illegalità di questa pratica, si tratta sempre di fantasiosi pseudonimi. Il talento del writer di classe sta proprio in questo: eseguire con grande precisione e rapidità, sovente con un “palo” alle spalle, le creazioni preventivamente progettate. Nascono così i “pezzi”, vere e proprie opere complesse che fondono la scrittura con ornamenti, contorni, disegni, fumetti e paesaggi che possono davvero lasciare senza fiato. Diventare un bravo writer non è facile, occorrono anni di esperienza. Le firme famose giocano sulle dimensioni, sull’effetto sorpresa del colore in contrasto col grigio cittadino, sulla scelta di uno stile personale e inconfondibile. Spesso, all’occhio non allenato, le scritte risultano illeggibili, ma anche questo fa parte del gioco: il “pezzo” chiede di essere assorbito, più che capito dallo spettatore. Secondo gli assidui è proprio questo il bello del writing, oltre al brivido del rischi di essere colti sul fatto. Molto lontano dal senso di protesta delle origini, che risalgono agli anni ’70 nei quartieri periferici di New York, oggi lo scopo ultimo del writing è che una data firma diventi famosa e arrivi lontano. Per questo le bombolette spray si spingono oltre la fissità degli edifici, fino ai vagoni delle metropolitane e dei treni. Così il viaggio dell’arte alternativa continua lungo strade sempre imprevedibili, via ferrate comprese.

Giulia Caminada (è un mio vecchio articolo pubblicato nel 2000)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *