Viviamo in un mondo in cui l’economia agisce a livello planetario. La chiamano globalizzazione.
Se si tratti di un fenomeno nuovo e quali siano le sue precise caratteristiche, restano questioni aperte.
Di fatto, le economie mondiali sembrano interconnesse, i mercati borsistici strettamente collegati, le aziende, non solo quelle multinazionali, ma anche le medie e le piccole aziende, sono in grado di dislocare la produzione fuori dai confini nazionali, laddove è più conveniente.
Tutto il mondo, almeno i paesi occidentali, ma anche gran parte degli altri paesi sparsi nei cinque continenti, consuma gli stessi prodotti, vede gli stessi film, legge i medesimi romanzi, beve Coca-Cola e pasteggia da Mc-Donald’s, sfoglia giornali assemblati tecnicamente e ideologicamente allo stesso modo, si connette alla Grande Rete mondiale, Internet.
Tutto è strettamente collegato, per cui si può tranquillamente dire, parafrasando piuttosto approssimativamente Edward Lorenz, meteorologo, matematico nonché padre della teoria del caos, che un batter d’ali di una farfalla a New York è in grado di provocare conseguenze concrete e spesso imprevedibili in tutto il mondo. Sì, perché sono gli Stati Uniti la realtà guida, egemone, della globalizzazione. Il modello da imitare universalmente
Gli stati nazionali sembrano ormai segnare il passo, realtà obsolete, ferrivecchi inidonei a garantire la libera e veloce circolazione di beni, servizi, idee, fautori di potenziali pericolosi sciovinismi, capaci di minare la pace, quella pace così necessaria all’intero ciclo economico, la pace così cara ai mercanti di ogni tempo.
Persino i gloriosi stati europei, ricchi di una forte identità storica, hanno recentemente portato a termine un’unione che non è soltanto economica, bensì politica e amministrativa.
Ma la globalizzazione, dunque, è un bene o un male? Rappresenta la promessa di maggiore libertà e benessere per i cittadini di tutto il mondo, o costituisce un pericolo, perché favorisce l’omogeneizzazione culturale, l’omologazione consumista, la fine delle particolarità culturali, dell’identità dei popoli e della ricchezza delle tradizioni locali?
Melting pot letteralmente significa “crogiuolo”. L’espressione si usa per indicare l’amalgama, all’interno di una società umana, di molti elementi diversi (etnici, religiosi, ecc.).
Melting pot è inoltre un nomignolo di New York, in ragione del fatto che proprio in questa grande metropoli vivono milioni di persone di culture tra loro molto diverse, proprio come in un grosso calderone. Il melting pot è un fenomeno complesso che sta avvenendo, in proporzioni minori, anche in Italia, paese nel quale comincia a delinearsi una fusione tra la popolazione italiana e quella immigrata. Il melting pot consiste nell’amalgama di moltissime culture che pur non inibisce l’individuale senso di appartenenza al Paese: per esempio un francese immigrato negli Stati Uniti può conservare usanze, lingua e religione originarie e sentirsi nondimeno cittadino americano a tutti gli effetti.
questa è la definizione corrente. Per chi è di lingua inglese rendono bene l’idea le seguenti immagini: minestrone, candela sfatta, che si sfa cioè si scioglie…