La guerra provocò a livello internazionale un grave dissesto economico e un grande sconvolgimento sociale e, a parte il caso della Russia (dove la crisi travolse definitivamente il vecchio regime), in tutti i paesi coinvolti nel conflitto furono messi drammaticamente alla prova gli ordinamenti economici e politici esistenti. L’interruzione della produzione bellica e il ritorno dei combattenti all’attività civile determinarono forti squilibri nell’economia europea, che tra il 1920 e il 1925 attraversò una fase di ristagno. L’indebolimento degli Stati belligeranti e il dissesto del mercato internazionale provocarono una grave inflazione; la dipendenza dell’economia europea da quella degli Stati Uniti, che si era già profilata durante la guerra, divenne ancora più netta; il Giappone conquistò una posizione di egemonia in Estremo Oriente, approfittando del venir meno della concorrenza europea per dominare i mercati asiatici. Quest’insieme di circostanze aggravò la situazione dell’Europa all’indomani della guerra e resero difficile il problema della ricostruzione; fino al 1924 la produzione industriale e il volume delle sue esportazioni rimasero molto inferiori al livello precedente la guerra, mentre l’arresto degli investimenti impedì il riassorbimento della vasta disoccupazione. Lo sforzo di rimettere in funzione l’apparato produttivo civile dovette tener conto anche dei mutamenti che si erano creati nei rapporti sociali, negli orientamenti politici, nel costume e nella vita intellettuale. In ambito europeo, inoltre, fra i momenti della difficile stabilizzazione del dopoguerra troviamo l’esperienza della repubblica di Weimar, l’avvento del fascismo in Italia e la provvisoria distensione dei rapporti internazionali. La crisi dello stato liberale italiano. La crisi post-bellica trovò l’Italia in condizioni particolari che, in parte, derivavano dalla tradizionale struttura dello Stato e dell’economia. Due erano i fattori di debolezza: benché alla vigilia della guerra era cominciata una nuova fase del processo di maturazione politica delle masse italiane – che non tendeva, soltanto, ad allargare le strutture del movimento operaio ma a toccare, per effetto dei riflessi dell’emigrazione, del suffragio universale e dell’attività di socialisti e cattolici, anche il mondo rurale -, una gran parte della popolazione era rimasta ai margini dello Stato, mantenuta in condizioni di inferiorità e spesso priva di rapporti anche con l’opposizione politica, la quale non era riuscita a penetrare in un mondo (quello rurale meridionale, ma non soltanto) che l’analfabetismo e la disgregazione sociale rendevano impermeabili all’opera di organizzazione politica e sindacale. Il secondo aspetto riguarda le classi dirigenti e la loro mancanza di omogeneità. Lo sviluppo economico, per il modo in cui era avvenuto, non aveva contribuito a rendere più omogenee e unite le classi dirigenti ma ne aveva esasperato i contrasti interni aggravando, in particolare, lo squilibrio tra Nord e Sud. La pianura padana collegata con l’Europa centrale favorì la formazione del triangolo industriale Milano-Torino-Genova e il notevole incremento demografico di queste città; nel Sud diventava più difficile creare le premesse per l’ammodernamento della vita economica e civile. E proprio la questione meridionale fu uno dei problemi che con maggiore insistenza si riproposero con centralità all’Italia del dopoguerra e ognuno dei grandi partiti nazionali si impegnò a riesaminarla e a riproporre la lotta per la sua soluzione. Accanto a questi due aspetti fondamentali, si pongono l’imprevista esigenza di equipaggiamento della guerra e lo sforzo prolungato imposto ad un apparato produttivo ancora relativamente debole che accentuò la già alta concentrazione monopolistica, la dipendenza dell’industria dalle commesse statali e la sua compenetrazione con il capitale bancario. Ma la guerra aveva dato alle masse, anche, l’occasione di una più rapida maturazione politica e ciò valeva, in modo particolare, per i lavoratori delle regioni meno progredite: « … La loro assenza – ha scritto Gaetano Salvemini – era durata quattro anni, durante i quali si erano vista molte volte la morte innanzi agli occhi, e per salvare la vita avevano dovuto tenersi bene stretti ai loro compagni, sotto i loro caporali, i loro sergenti, i loro ufficiali inferiori; molti avevano fatte le esperienze di comandare dopo le esperienze di obbedire. I caporali, i sergenti, i tenenti della guerra sarebbero i caporali, i sergenti, i tenenti della pace. La guerra doveva avere prodotto delle ‘guide’ per quel popolo così difficile a tenere insieme ». E a fronte di questi fattori, la classe dirigente non fu in grado di indicare una linea che assicurasse l’adeguamento del regime liberale alla nuova situazione politica e sociale che si stava creando. I primi mesi dopo la guerra furono caratterizzati da grandi agitazioni sociali, dal problema della ripresa economica e da quello di quale posto l’Italia doveva avere nel sistema internazionale. Il modo in cui si svolse la partecipazione italiana alle trattative di pace, le difficoltà che si crearono nei rapporti tra le potenze vincitrici e l’effettiva disparità dei vantaggi che le diverse potenze alleate trassero dalla vittoriosa conclusione del conflitto, contribuirono a creare nell’opinione pubblica italiana il mito della «vittoria mutilata». La composizione delle forze politiche nazionali. Lo sconvolgimento sociale e psicologico provocato dalla guerra e, in parte, anticipato dalla crisi del sistema giolittiano, dal suffragio universale e dalla guerra di Libia ebbe i suoi riflessi sul piano della composizione delle forze politiche nazionali. Un fatto di grande importanza fu la fondazione, nel 1919, del partito popolare italiano, ad opera del prete siciliano Luigi Sturzo (1871-1959), che assunse subito un carattere di massa. Uno dei primi successi del partito popolare fu l’attuazione della riforma elettorale: con disappunto dei liberali e delle forze politiche tradizionali, il sistema uninominale (per il quale si votava per un candidato singolarmente e che polarizzava la lotta politica attorno a singole personalità a alle loro clientele) fu sostituito dal sistema proporzionale. Alle elezioni i partiti dovevano ora presentare liste di candidati e la lotta si svolgeva ormai tra i partiti, sulla base dei loro programmi e della loro forza organizzativa, non più tra i singoli uomini politici. Nelle elezioni del 1919, il partito popolare mandò alla Camera 100 deputati; il partito socialista travagliato da una profonda crisi interna, 156. In seno al partito socialista, sorse a Torino nel 1919, attorno alla rivista «Ordine nuovo», un movimento politico guidato dal sardo Antonio Gramsci (1891-1937) che, unendosi al gruppo socialista napoletano guidato da Amadeo Bordiga (1889-1979), provocò una scissione al congresso socialista di Livorno (1921) e diede vita al partito comunista d’Italia, in stretto legame con la terza Internazionale. A Milano, il 23 marzo 1919, si costituì un altro nuovo movimento, il fascismo, capeggiato da Benito Mussolini. All’origine esso non aveva caratteri politici ben definiti ed era un movimento relativamente ristretto, ma si trasformò rapidamente nel vivo della lotta politica e nel 1921 divenne un partito, assumendo nel giro di pochi mesi le caratteristiche che lo avrebbero portato al potere. Il tentativo di garantire il libero gioco democratico fu fatto da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) che assunse la presidenza del consiglio dopo le dimissioni di Orlando e che per questo atteggiamento di sostanziale rispetto delle regole democratiche fu investito da una violenta offensiva delle destre. Ma, ormai, la compagine liberale perdeva terreno di fronte all’avanzata dei cattolici e dei socialisti, come è dimostrato anche dai risultati delle elezioni del 1919. Nella maggior parte delle forze liberali questa situazione provocò un moto istintivo di arretramento su posizioni reazionarie. Da questa tendenza, oltre a Nitti, rimaneva immune Giolitti che, col discorso elettorale tenuto a Dronero il 12 ottobre 1919, si dimostrò consapevole della necessità di accogliere le esigenze e le rivendicazioni popolari, pur riproponendo nello stesso tempo la sua tattica consistente nel voler concedere alle sinistre quanto era sufficiente per togliere alla loro azione pericolosità e impulso sovversivo. A lui fu affidato il governo nella speranza che fosse in grado di assicurare il ritorno alla normalità. Liquidò la questione fiumana col trattato di Rapallo (12 novembre 1929), col quale si riconobbe Fiume come città libera e fu annessa Zara all’Italia imponendo, poco dopo, ai legionari dannunziani lo sgombero della città. Sul fronte interno allorché gli operai metallurgici nel settembre 1920, dopo una lunga battaglia sindacale, decisero l’occupazione delle fabbriche, Giolitti si astenne da interventi repressivi finche tra gli industriali e gli operai intervenne un accordo che chiuse definitivamente l’episodio. Ma con il 1921 le difficoltà economiche divennero più acute e la produzione industriale rallentò, con il conseguente aumento della disoccupazione. Lo statalismo fascista. Dopo la Prima Guerra mondiale, crollò lo Stato liberale parlamentarista e ormai nettamente partitico e, si affermò il regime fascista, antiparlamentarista e molto più autoritario e centralizzante del precedente. Il fascismo fu, tuttavia, molto più attento alle nuove esigenze popolari e voleva, sui suoi presupposti dottrinari, edificare uno Stato corrispondente alla nuova realtà di “massa” prodotta dalle trasformazioni socio-economiche e dalla mutazione derivante dalla guerra e dall’enorme mobilitazione di tutti gli strati sociali che essa aveva imposto. Il vecchio Stato unificatore non scomparve, però, del tutto. Rimase la Monarchia, autentico principio di quello Stato, che costituzionalmente esercitava un potere piuttosto indefinito ma che, di fatto, limitò notevolmente, rispetto alle sue ambizioni “totalitarie”, il regime fascista. Si ebbe così per un ventennio la coesistenza del debole potere statutario del Re con quello dittatoriale, ma anch’esso limitato, del Duce. E gli anni compresi tra il 1925 e il 1940 videro una modificazione dello Stato italiano nella sua filosofia pubblica, nel suo ordinamento e nelle sue funzioni – che la dittatura fascista realizzò in forma rigidamente statalista, interventista e autarchica sul piano sociale ed economico -, della quale taluni effetti rilevanti sono derivati sino ai nostri giorni. Una ristrutturazione che operò in profondità e che, tuttora, è presente, per molti aspetti, proprio nella dimensione fondamentale della statualità rappresentato dalla legislazione. Vi fu, infatti, negli anni ’30, attraverso un intervento sistematico sulle leggi, sull’organizzazione amministrativa dello Stato e sull’educazione scolastica, una profonda revisione dei modi di essere dello Stato e del “pubblico”, nella sua più vasta accezione al riguardo dei cittadini e delle loro attività socioeconomiche, oltre che politiche. Lo Stato corporativo e nazionalista del fascismo fu il risultato di una complessa riorganizzazione politico-istituzionale che trasse notevole impulso dal crollo delle economie mondiali alla fine degli anni ’20. Esso rappresentò, nella nostra storia, la fase dell’integrazione più autoritaria ma anche più organica e moderna in senso sociale.
Giulia Caminada Lattuada (articolo pubblicato nel 2003)