La crisi del sistema giolittiano. L’equilibrio politico interno creato da Giolitti mediante l’alleanza tra liberali progressisti e socialisti riformisti cominciò a vacillare dopo il 1907, all’indomani della crisi che colpì l’economia mondiale. Le difficoltà incontrate, soprattutto, per la resistenza dei grandi gruppi economici e finanziari alle riforme costrinsero Giolitti a cedere le redini del governo nel 1909, benché il ritorno al potere di Giolitti nel 1911 (e fino al marzo 1914) avvenne all’insegna di un forte rilancio delle riforme e, nello stesso tempo, di un parziale accoglimento delle pressioni che venivano dai nazionalisti. La riforma elettorale fu approvata nel maggio del 1912 e messa in pratica nelle elezioni dell’anno successivo: furono ammessi a votare anche i nullatenenti e gli analfabeti maschi, purché avessero raggiunto trent’anni e fatto il servizio militare. Il numero degli elettori passò ad otto milioni e mezzo. L’occupazione francese del Marocco diede, intanto, a Giolitti la possibilità di mettere in pratica gli accordi stipulati con la Francia nel 1902, che lasciavano all’Italia mano libera in Libia. In tal modo Giolitti riteneva di venire incontro alle richieste dell’opposizione di destra e alle pressioni di importanti forze economiche, come il Banco di Roma, che avevano già iniziato la penetrazione finanziaria in Libia e nell’impero turco. E la ventata di bellicismo non fu soltanto un fatto letterario: il suo aspetto più pericoloso fu anzi il consenso che la prospettiva di espansione e di guerra ottenne nel mondo degli affari industriali e finanziari, il quale entrò così, dopo il primo e fallimentare esperimento del periodo Crispino, alla gara imperialista che doveva portare alla guerra mondiale. La resistenza delle tribù berbere, però, si protrasse a lungo; il costo dell’impresa si rivelò superiore al previsto; la Libia era come Gaetano Salvemini (1873-1957) l’aveva definita, almeno rispetto alle possibilità italiane di iniziativa economica di quel momento «uno scatolone di sabbia» e offriva scarse possibilità di insediamento a coloni italiani. Le delusioni non fecero che accentuare le critiche alla condotta dell’impresa, specie da parte dei nazionalisti. Le ripercussioni interne della conquista della Libia furono, dunque, ben diverse da quelle che Giolitti aveva previste e diedero la scossa definitiva al sistema politico che egli aveva creato. L’opposizione conservatrice si rafforzò per l’apporto di una parte della borghesia industriale, che si era messa sulla strada dell’imperialismo, e le correnti estremistiche di sinistra, sia dentro sia fuori del partito socialista, aumentarono la loro aggressività e capacità di presa tra gli stati popolari. Nel congresso socialista di Reggio Emilia del 1912 il gruppo della destra riformista che aveva accettato il revisionismo di Bernstein e aderito all’impresa libica, fu espulso. La corrente riformista turatiana, indebolita dalla scissione, fu posta allora in minoranza dai massimalisti. La direzione dell’Avanti! fu affidata a Benito Mussolini, che si era messo in luce per il suo acceso massimalismo e la simpatia per il sindacalismo rivoluzionario. Alle elezioni del 1913, Giolitti preoccupato di un’avanzata socialista stipulò accordi con i cattolici che si impegnavano a sostenere i liberali in quei collegi in cui si fosse profilata la minaccia di una vittoria dell’opposizione di sinistra, dando a sua volta assicurazione che i liberali si sarebbero astenuti da iniziative anticlericali nelle future legislature. Giolitti riuscì a conservare, nel parlamento eletto a suffragio universale, una cospicua maggioranza che corrispondeva sempre meno, però, alla sua compattezza interna e alla uniformità del suo orientamento politico. Accanto ai giolittiani, favorevoli alla prosecuzione delle riforme, erano numerosi coloro che sentivano il condizionamento dei cattolici e le suggestioni del nazionalismo e delle tendenze autoritarie. Molti deputati liberali non erano disposti a proseguire oltre nella politica di riforme e nel compromesso con i socialisti ed era impossibile continuare a perseguire l’obiettivo di una mediazione tra liberali e socialisti quando ormai si imponeva una scelta tra due tendenze sempre più divergenti. Antonio Salandra (1853-1931), conservatore, designato presidente del consiglio su suggerimento di Giolitti, ottenne dal re l’investitura parlamentare nel marzo del 1914, ma il clima politico interno e internazionale era ormai mutato. Inoltre, a far precipitare ulteriormente gli eventi intervennero i fatti interni del giugno 1914. In risposta a una sparatoria della forza pubblica contro una manifestazione di scioperanti, la Confederazione del lavoro indisse uno sciopero generale e i moti di piazza («settimana rossa») esplosi nelle Marche e in Romagna, dove Benito Mussolini (1883-1945), Pietro Nenni (n. 1891), che iniziava allora la sua lunga milizia fra le fila del partito repubblicano e, l’anarchico Errico Malatesta (1853-1932) annunziavano propositi rivoluzionari, furono sufficienti a scatenare una vasta repressione da parte del governo e a dare un colpo di acceleratore all’involuzione conservatrice. Ad appena un mese dalla « settimana rossa» i colpi mortali di Sarajevo segnarono l’inizio di una nuova fase della storia mondiale. Da quel momento tutte le tensioni accumulate nel decennio giolittiano si riversarono nella lotta a favore o contro l’intervento italiano nella grande guerra. La tragedia imminente. Il superamento della crisi di fine secolo e la riaffermazione piena del metodo liberale avevano comportato costi non esigui per il mondo politico italiano di quel tempo. La libertà lasciata al movimento sindacale, il compenso dato alle sfere imprenditoriali con una particolare politica economica e commerciale, il consolidamento del divario emerso tra Nord e Sud, una sensibile differenziazione dell’azione politica e amministrativa nelle varie zone del paese, la guerra di Libia, il suffragio universale, il «patto Gentiloni», erano stati i principali fra questi costi. Ma il costo più alto fu l’intervento nella «grande guerra» che, dalle cause politiche molteplici, fu scatenata dall’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico, e della moglie avvenuta il 28 giugno 1914 mentre erano in visita a Sarajevo, capitale della Bosnia, ad opera di studenti bosniaci. E per l’Italia, che dapprima neutrale intervenne nel conflitto in seguito alle «radiose giornate» di maggio del 1915, segnò l’inizio della crisi decisiva di quello Stato e di quell’Italia. Essa era legata dal patto della Triplice Alleanza all’Austria e alla Germania; ma i suoi obblighi formali di cobelligeranza erano venuti meno sia perché l’Austria era il paese aggressore, sia perché l’ultimatum alla Serbia era stato dato senza preventiva consultazione dell’Italia. La dichiarazione di neutralità del 2 agosto 1914, diede, pertanto, all’Italia la possibilità di svolgere trattative con i due blocchi opposti, riproponendo, soprattutto, il problema delle terre irredente, ereditato dal Risorgimento, e quello dell’influenza nell’Adriatico e nei Balcani. La maggioranza del paese era orientata al mantenimento della neutralità. Seppur per ragioni diverse, cattolici, socialisti e liberali giolittiani erano contrari all’intervento. Fra le forze interventiste troviamo, invece, i nazionalisti capeggiati da Gabriele D’Annunzio (1863-1938), i democratici né liberali né socialisti, gli irredentisti trentini, i sindacalisti rivoluzionari e i socialisti massimalisti, la destra liberale antigiolittiana. Mentre divampava il contrasto tra neutralisti e interventisti, il governo italiano stipulò segretamente il Patto di Londra ( 26 aprile 1915 ), in base al quale si impegnava a scendere in campo entro un mese contro gli avversari dell’Intesa; in cambio, una volta raggiunta la vittoria, l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino e l’Alto Adige (o Tirolo meridionale), Trieste e l’Istria, la Dalmazia (esclusa la città di Fiume) e la base di Valona in Albania. Stipulato il patto restava, però, da affrontare la difficile situazione politica interna: i neutralisti avevano la maggioranza in parlamento e l’approvazione del patto incontrava gravi ostacoli. Una violenta campagna di intimidazione si scatenò, allora, contro di loro, con una serie di manifestazioni di piazza chiamate poi le «radiose giornate» di maggio. Il governo e la corte le incoraggiarono e se ne servirono per dare una parvenza popolare alla decisione dell’intervento. La pressione della corte, del governo e della « piazza» – che si svolse mentre venivano soffocate le manifestazioni popolari contro l’intervento – piegò il parlamento, che votò i pieni poteri a Salandra con la sola opposizione dei socialisti. Lo stesso Giolitti, sul quale si era appuntata con particolare violenza la campagna di insulti e di accuse degli interventisti, non volendo mettersi contro il re che aveva firmato l’impegno di Londra, rinunciò a portare avanti la sua battaglia neutralista. Il 24 maggio fu, così, dichiarata guerra all’Austria. La veste di legalità che fu data alla soluzione della crisi di governo non nascose il fatto che l’intervento in guerra coincideva con una ripresa, più insidiosa del tentativo autoritario della fine del secolo, dell’offensiva contro il regime parlamentare. Tuttavia, però, il dato essenziale fu ancora una volta segnato dal distacco fra il piano su cui si svolgeva il grande dramma nazionale e quello sul quale si ritrovavano le masse popolari. Milioni di uomini, provenienti per gran parte da quei ceti contadini e proletari che l’Italia liberale non era mai riuscita veramente a inserire nel suo quadro, furono chiamati a uno sforzo supremo per il raggiungimento di obiettivi politici e ideali che stavano al primo posto nella tavola dei valori dell’Italia ufficiale, ma che non erano mai entrati, come realtà operante, nel mondo di quegli uomini e quei ceti. In una guerra che doveva essere breve (ma non lo fu) e che dal punto di vista militare si presentava con l’impiego di un ingente quantità di mezzi meccanici e chimici e una mobilitazione di risorse umane quale mai si era verificata nella storia. L’esperienza della guerra – pur attraverso episodi che suonarono come amara sorpresa per la classe dirigente (si pensi a Caporetto) – diede alle masse un senso più pieno del loro peso effettivo nel quadro della vita nazionale e ne promosse l’esigenza di partecipazione politica in misura più alta di quanto non avessero fatto, sino allora, il movimento sindacale e quello operaio. All’indomani della guerra la forza dirompente di questo elemento si aggiunse al dissenso socialista e cattolico e ai tanti motivi di discrepanza tra l’Italia legale e l’Italia reale, che si erano già manifestati nel periodo precedente.
Giulia Caminada Lattuada giulia.caminada@tiscalinet.it